ricostruendo

mentre nei viali vedo tigli tagliati quadrati, nella mia testa le linee rette si spezzano e si attorcigliano. riprendo là dove avevo lasciato, prima che i chilometri mi drogassero, facendo sparire ogni pensiero su cui non avevo voglia di riflettere. come se la voglia di non pensarci bastasse a cancellare, come un’amnistia assoluta pulisse candidamente la fedina penale alla conegrina. senza averlo scelto, i miei mulini a vento si impiantano sul mio orizzonte e il fracasso del roteare delle pale non mi lascia dormire tranquilla.

mentre frugo nei polverosi cassetti virtuali dei byte, ritrovo parole che avevo scordato, come se non avessero fatto parte di me ad un momento e non lo facessero tutt’ora. e forse, mi dico che mi chiedo troppo rileggendo righe in cui mi rimprovero con astio di non essere stata capace di fare quello che saprò così bene realizzare, senza nemmeno più pensare ai complessi e alle molle che mi cucivo sotto al culo. degli anacronistici rimpianti, come se un bebé nelle fasce se ne volesse per non sapere ancora cosa significa vivere. Eppure, una perenne insoddisfazione rispetto alle mie decisioni, all’intensità con cui le applico, mi resta accollata addosso. Scorgo con amarezza che la felicità alla fin fine non  è  nient’altro che un idealtipo weberiano: nella realtà reale (e non quella dei libri o delle pellicole) non si attua mai nella totalità dei suoi caratteri, ce n’è forse qualcuno, ma non ce ne sono altri, appena quanti bastano per poter farci entrare nella casella appositamente prevista per descrivere le emozioni che ci stampano un sorriso in mezzo alla faccia (fr: en plein gueule). Mi pongo limiti troppo in alto, per poi lamentarmi di non saperli raggiungere, come sperassi di poter restare tutta la vita sotto botta senza che finisca mai e che non esistessero down e scarenzamenti.

Piovono lacrime non appena i pensieri sfiorano tangenzialmente un passato che ritorna e che ho l’impressione che si sia mangiato tutte le mie ruote di soccorso. Dovrei forse semplicemente smetterla di accanirmi contro le mie unghie e le mie paranoie, non caricandomi di responsabilità che non esistono. Infreddolita dal cielo grigio nella mia testa, sbatto i denti  contro la mia mascella tesa (per la felicità del dentista) sentendo l’angoscia che mi sale dentro pervadendo ogni cellula. guardandomi allo specchio e sentendo delle belle mani accarezzarmi, ero quasi riuscita a riappacificarmi con la mongolfiera che appariva nelle foto di un periodo in cui degli ormoni bombardavano per niente la mia massa adiposa, ma, tremando, non riesco nemmeno più a conservare una briciola di fiducia in me stessa. L’angoscia che forse sia io a far chiudere a riccio le persone, alchimista impotente che non stimola la voglia di star bene, mi tortura la deglutizione, rivedendo i racconti del passato nel presente di una persona radicalmente sovvertita rispetto a quando gli succhiavo l’uccello.  Angoisses bidons, come se mi trovassi al centro di un girotondo in cui ciascuno punta il suo dito contro di me e da la mano a quello da cui mi sono allontanata. Forse recidere nettamente vale più di allentare fino a scemare, ed è sicuramente più facile ricucire una ferita netta che la carne lacerata. E sento che è più difficile ritornare che andare, come se fossi messa alla prova del tessere relazioni e mi ritrovassi con un ago in mano a infilzarmi solitariamente gli arti. Non voglio dare l’impressione di seguire le orme, ma è mi ha sorpassato in un anticipo di tempo e non d’idee, senza che io  possa tuttavia lamentarmi di voler bruciare i brevetti.

E chiedendomi con uno stupore attonito come ci sia caduta nel vischio di situazioni su cui elucubro paranoie e angosce, trovo un’eco nei consigli che mi rimproverano sulla base di filamenti di dna. Perchè sopportare silenziosamente me l’hanno inculcato fin dalla culla con sudore e stoicismo, stridendo i denti senza sapere assolutamente perchè, incapaci di vedere che l’ombra sotto cui ci troviamo non viene da un macigno kantiano, ma dalla nostra stessa capigliatura.

Senza saper più dove andare, parlo di aerei avendo per la prima volta paura di sentirmi lontano. Venti e qualche anno senza lacci ne’ approdi non sono bastati a forgiarmi le ali, al contrario sembrerebbero pesarmi come zavorre, come se il premio tanto atteso fosse caduto dal cielo.  E se per la prima volta realizzassi che la libertà costa? Essendo paradossale vederci un’etichetta fluorescente con un prezzo, so che bisogna guadagnarsela senza perderci nulla. Anche se le speranze al cappio non muoiono e anche l’anarchia ha i suoi martiri.

foto di runfox: http://runfox.deviantart.com/art/Worker-2-331412181