altrove

lascio l’introspezione per l’impossibilità di credere che ciò che ho osservato con i miei stessi occhi faccia parte della realtà più di quanto non si possa vedere sul palco di un teatro o nei meandri di un sogno una notte agitata. ma non è questione solo di retina e pupille, davvero il sole solca la pelle, la polvere spessa e la diossina della plastica bruciata colonizzano i bronchi, bruchi e baobab scendono lungo l’esofago, le scosse della strada dissestata smuovono il sedile passeggero di unpiroga motorino senza casco, le luci del traffico caotico perforano il velo della notte, una minuscola riga si infila nel naso, due polli a testa in giù mi impediscono di tenermi sobbalzando nelle buche, le zanzare uccidono globuli rossi, le mani si incrociano e stormi bianchi solcano la superficie liscia delle ninfee tra gli sbuffi degli ippopotami.

la lista è lunga e ha perduto ogni convenienza cronologica, particolari si addentrano nei neuroni mentre il tempo passa e mi rifionda sulle piastrelle brillanti dove per solcare un passo è necessario dotarsi di passaporto e pelle chiara. l’azzurro cuprico dei muri e il fumo di legna e immondizia, l’acqua scaldata per un secchio come doccia, una birra incredibilmente fresca mentre lo sciopero che vorrebbe portare a settanta euro un mese di fatica finisce per aumentare il prezzo delle bottiglie, i rami degli alberi nodosi e imponenti, i sorrisi, le speranze che si infrangono in un campo di pomodori sotto il sole calabrese senza possibilità di dire che, per continuare a guadagnare tre euro al giorno, valeva forse la pena continuare a scaldarsi con i frustini delle maschere durante i funerali, i geni che aleggiano nella brousse, i wax dell’otto marzo attorno alla vita, la polenta di miglio che bolle, le cicatrici degli incidenti sulle facce e restare imbrigliati, scontrandosi in vie di scampo improbabili, nei vincoli familiari che scavalcano da lontano i soli legami di sangue.

sentendo gli scarafaggi che mi scorrono sui piedi, mi chiedo come gli intellettuali antropologi che pretendono poter, grazie al loro sguardo éloigné, meglio capire e scovare concetti nell’alterità culturale, si siano posti guardando la merda che ribolle in un buco adibito a cesso, mentre si pulivano il culo con la mano sinistra e versando con la destra l’acqua. non riesco ad immaginarmi le giacche inamidate e le camicie apprettate mentre mangiano to con le dita su una stuoia, bevendo l’acqua che c’è senza pastiglie clorate, lenzuola di poliestere sul cemento. eppure, è da lì che viene il sapere che abbiamo, l’unico a poter scardinare l’universalità di istituzioni naturalizzate nel sistema capitalistico occidentale. forse è per questo che Lévi-Strauss non amava i viaggi, ma mi pone drastici dubbi. incertezze che giungono proficuamente prima che anch’io mi lanci in un’ispezione di come funzionano i meccanismi che ci costruiscono. e trovo legittimità più di quanto non sperassi facendo campo a cinquecento chilometri da dove sono nata, lasciano lo sbalordimento e gli occhi sgranati di ciò che non conosco a nessuna pretesa di sapere o comprensione intellettuale. aspettando-ilbus

prima di potermi illudere di capire qualcosa, devo già impossessarmi delle lingue non scritte, delle formule dei saluti infiniti, del pormi al di dentro ma al di fuori del dovere di lavare i panni, preparare il cibo quotidiano e veder un ventre sempre più arrotondarsi per perseverare nella stupidità umana. perché, una sera su una sedia di plastica e un vecchio tavolo di ferro scrostato e traballante nella polvere rossa, sotto le stelle e i claxon lontani, tremo urlando di non voler ciò che mi augurano. vorrei semplicemente non pensare in balia del sonno a scatti come qualche giorno prima sotto gli stessi alberi di mango e vicino alle stuoie intrecciate, vomitando al chiaro di luna. ma nella supposta razionalità della lucidità, mi ritrovo a sentirmi prigioniera di un destino dettato da un cromosoma, ben insegnato, qui come altrove, dal pervasivo potere della religione cattolica che riesce ad infiltrarsi, in un poco sorprendente sincretismo, nei meandri dei sacrifici delle viscere dei polli e le banane gettate ai pesci gatti mai bianchi. e finisco per risvegliarmi con gli occhi gonfi ritrovando, anche nelle gonne che non voglio portare, la forza per continuare a camminare, come direbbe qualcuno, in una direzione ostinata e contraria.

il naso negli odori di erbe fermentate e peperoncini secchi, guardo nel frigo le palline di burro di karité, i muri scrostati mi seguono, ma il sole è pallido come i nostri visi. perché forse anche la mannoia ha ragione, viaggiare non è solamente partire, partire e tornare. e anche se tutto è come prima, riesco a ristorarmi, a guadagnare energia da impiegare per cementare altre strade da percorrere.

foto mie, uso commerciale non autorizzato, richiesta di pubblicazione auspicata