quello che non ho è quello che non mi manca?

aggiungo insolente interrogativi a iosa, anche alla prosa cantata di un poeta senza tempo. sbarco dopo qualche settimana lontana dalla banalità di questa viuzza stretta e mi ritrovo a scontrarmi con il rancore inutile della vita atomizzata.

ho voglia di carezze e massaggi a scivolare su tutta la pelle per alleviare l’indolenzimento di muscoli e cuore, ne ricevo qualcuna senza sorprendermi di non averne abbastanza. fantastico scambiando sguardi con riccioli e barbe con cui non mi dispiacerebbe avvinghiarmi. mi attardo sperando che un ultimo discorso ci faccia cadere addosso, ma non so come faccio a restare sempre in piedi.mare, graffiti, cancello

e se da un lato mi accarezzo, dall’altro, mi incazzo senza ritorno, rabbia irosa di fronte a sbarre e grate di filo spinato, rinchiusa in uno stanzino sotto gli occhi attenti di uomini in divisa. il caldo di un sole che squaglia l’asfalto sporco di quartieri che nemmeno la corsa irrefrenata di un capitale trituratore riesce per il momento a schiacciare. e lo sguardo disperato di una nonna a cui hanno spedito via il nipotino legato come un salame imbottito di psicofarmaci mi fa male quanto le tracce di un pugno en plein geule. e accanto alla vecchia algerina, il sorriso della sua nipotina senza peli sulla lingua e  l’immagine di uno zodiac con tre uomini che ridono, oggi, con un anello al dito e un documento nel portafoglio. e, come in un appuntamento al buio, vedo appiccicare un volto su un nome che ho sentito spesso riecheggiare, un volto con gli occhi neri dalle pupille tristi che mi ringrazia, crudelmente rassegnato alla forza della disperazione, senza che io sappia articolare più di uno sputo alle sbarre. il rumore dei chiavistelli che si chiudono mi fa gelare il sangue, anche se rimbomba lontano al di la della cornetta.

e i chilometri che scorrono nella notte d’adrenalina, il sudore che gocciola sugli occhi,  fatica di muscoli tesi alleviata da epinefrina, riesco a relativizzare proibizioni e divieti su racconti dell’antico egitto, albe d’alcool, scherzi e speranze in  vecchie case abbandonate. e rintronata da un fumo spesso, sotto i lampioni arancioni, mi muovo in una massa rincuorante per far fronte a capetti di quartiere. vecchi amici come nuovi, ritornare su strade che ho percorso fino a consumarmi le scarpe ritrovando una città troppo difficile da abbandonare in balia della sua marea ventosa. senza capire come me ne possa essere andata, saluto gente seduta al tavolino di un bar al centro, discuto di  nomi di viuzze e bon plans per cavarsela meglio come se nulla fosse cambiato. perchè alla fine, sono partita credendo di lasciare pomodori e barbabietole e ho ritrovato orti selvaggi e piante a sfidare i cemento e l’asfalto.