accumulo pensieri senza fine che si attorcigliano come i pistilli di caprifoglio arrampicati sulla caviglia.
e, tutto intorno, i semi di finocchio aprono ombrelli contro gli ultimi raggi ocra tra le nuvole plumbee.
So bene che non basta l’azzurro cristallino del cielo terso per sgombrare testa e gola dal groppo che pesa fino a togliere il respiro. Non è lo zaino, né la spalla, a tenermi indietro, ma la spossatezza che mi inciterebbe a lasciarmi rotolare pur di allentare la tensione.
Gli aghi di pino e i ricci di castagne mi farebbero meno male dei pensieri conficcati tra i neuroni.
Per una volta, non mi costringo a continuare, come invece pedalando sulla polvere accecantemente bianca e calda che spingo sotto i tendini.
un abbraccio accoglie i miei singhiozzi capendo che non sono i sogni che infestano il mio umore, ma l’onirico labirinto in cui sguazzo è lo specchio torbido delle percezioni quotidiane.
Le soluzioni che propone mi sembrano far acqua da tutte le parti, ma è la mia paura di guardare il fondo del pozzo del mio essere che alimenta le tubature che sgorgano.
nel frattempo, mi limito ad acclamare i conati che spostano oltre timori e tensioni. basta incitarmi ancora, prendermi in mano e continuare, buttarmi a capofitto nel susseguirsi di istantanee pur di non vedere. occorre ammettere che opporsi al malessere senza immaginare neanche di poterlo cancellare significa subirlo.
Foto mia (CC) BY NC