lenzuola e bolle di sapone

leggeri e effimeri come bolle di un bagno schiuma dalle note fragranti, i miei pensieri mi svolazzano attorno, sfiorandomi con carezze dolci. sotto un cielo che si schiarisce tra le nuvole di una pioggerellina che fa spuntare germogli dalla terra, sorrido specchiandomi nelle pupille verdi a macchioline che mi stanno accanto. abbracci che mi portano lontano tra la brezza calda di dune di sabbia e l’immediatezza di una pelle morbidamente liscia. ci attorcigliamo assaporando il vapore caldo di un bagno ritagliato nelle ore consacrate ad impegni salariali accantonati. e non basta che l’acqua si evapori perché io smetta di lasciarmi fremire da gocce di endorfine, cullata da cinguettii distanti. nel calduccio di una coperta di piume, non bado più ai macigni preoccupanti sul lato della testa. aspetto di ritornarci tra quelle braccia, rotolarmicisi dentro fino al cuore. non so cosa mi attendo, senza speranze ma con la voglia di stare bene. e come in una poesia, mi faccio dire che un mio abbraccio vale più di una riga che altera dopamina e piacere. acquisto fiducia al mercato dei complimenti innamorati, bella come medusa, mi sento galleggiare in un’acqua limpida che lascia trasparire mille possibilità. senza sapere dove arriverò navigando nelle mie lenzuola sgualcite da passione e sogni movimentati, mi lascio andare, sperando di non dover lanciare l’ancora. ancora

foto di paolalphotography http://paolalphotography.deviantart.com/art/drops-of-jupiter-245257072

cos’hai messo nel caffé?

con incurante e incredibile leggerezza, passo dall’abisso di una tristezza senza via di fuga allo svolazzare dolce di una libellula inebriata.
come un reduce da un inverno solo per metà metaforico, aleggio tra i raggi di un sole sempre meno obliquo, con lo sguardo sperso.
carte e dadi in mano non mi bastano per poter scegliere il da farsi, impossibile da specificare l’aleatorietà  di un percorso in cui quello che facciamo contribuisce senza determinare ciò che sarà.primavera carezze pneumatici abbandono
una tonnellata di secondi ammucchiati a fantasticare, reprimendo sensazioni nell’impossibile dei sogni, non basta a dar conto, nella realtà, di due notti di carezze e una giornata di parole calde tra i rami e le radici di alti platani bianchi sfiorati dall’acqua.
fingo di non conoscere l’alfabeto dei segni sparsi nella corrente delle relazioni, per poi stupirmi di averne i frutti tra le mani, come una mela caduta all’improvviso mi stordirebbe sfracellandosi sulla mia fronte. Eppure, mi rendo conto che, nonostante le mie lenti spesse, opache e annebbiate, riesco a sentire con relativa nitidezza le schegge d’elettricità che talvolta mi bombardano talmente forte da farmi tremare e indietreggiare impaurita. scossa dal timore di far del male, trovo difficile creare una breccia in cui lasciarmi infiltrare di bene e piacere.
ma qualche volta mi arrendo, depongo corazza e scudo di un cuore imbottito che incanala il cielo e mi lascio andare sulle onde di un fiume in piena. adesso è ancora più difficile immaginare dove mi porteranno quelle carezze e quegli sguardi talmente forti da potersi toccare.
senza vederne pianificazione, pur avendone annunciato il presentimento, ho sciolto quel legame a senso unico, quel ritrovarmi tra braccia collaudate e adattatimisi dal tempo, per ritrovarmi tra ossa che mi punzecchiano lasciandomi segni e lividi sulle cosce. li ho già vesti marcarmi le gambe, nella notte dei tempi di ricordi smarriti, capendo all’improvviso di essere cresciuta, tanto più sicura e libera nel saper scegliere dove accarezzare con una lingua che si disseta. mi inebrio con un odore nuovo e mi chiedo come continuerò a farlo, senza nemmeno pormi la domanda di se ci sarà un seguito. rinvigorisco all’idea che ogni sogno possa realizzarsi, ringalluzzendo la fiammella del mio cuore che batte forte. e non voglio vederci scelte binarie, distintamente nette, ma un affiancarsi di momenti tutti altrettanto possibili. scardinando i dettati di una fisica irrigidita, voglio vivere tutto alla volta e, non potendolo fare, voglio perdermi nel dondolare di un’altalena nel giardino fiorito di una palazzina scrostata. il profumo di un gladiolo irrora una giornata che scorre veloce sui raggi di un sole che si riflette sui miei neuroni, alleviati dall’aver trovato un approdo. insicuro forse, tentennante quanto me, ma mi apre le porte del possibile. l’urgenza improvvisa di una presenza importante da un giorno all’altro (seppur l’ avessi già sentita qui e qui).
come se avessi ritrovato la chiave di un enigma, rileggo a ritroso attimi carichi di significato differito ed è come mi facessi un’iniezione di fiducia nell’orizzonte e in me stessa.

 

foto di http://1violetstar9.deviantart.com/gallery/

teuf

Je rêve d’une réelle guerre idéale
Où les frères sortiraient des halls direction les halles
Et on serait bien plus de 50 000 en centre ville
A traiter la police comme une bande rivale

cd incastrato tra le grinfie di un’autoradio mi riporta su terra, nella difficoltà sormontabile di gestire un furgone su asfalto tappezzato di foglie umide, obbligandomi a non pensare alla nebbia dolce del bosco nel quale mi sono svegliata.

e oggi, non posso non amare l’indolenzimento che fa scricchiolare ogni mia fibra muscolare respirando ad ampie boccate, segno tangibile di un irreale realtà trascorsa davanti ai miei occhi e tra le mie dita. e sebbene, no, non ce ne usciamo la notte a costruire barricate infiammate dal sole dell’avvenire, sogno condiviso del tempo dell’attesa, in una serata di un autunno mite, ci limitiamo a  sovvertire un quotidiano costruito dal malessere reificato di orari e griglie, di obblighi e morale prendendo piacere. piacere di abbandonare in un virtuale allontanamento fattuale gli scazzi e le costrizioni da cui ci vediamo fin troppo spesso attanagliati.

gola graffiata, pelle interna delle guance lacerata, arti anchilosati, indolenzimento diffuso, occhi che si chiudono su se stessi sono un obolo in saldo se permettono di ottenere, con il solo limite di un arco di tempo delimitato, una fiducia in se’ e una sicurezza ostentata che in tempo normale mi costerebbe così tanto da doverci fare un mutuo. invece galleggio tra luci colori suoni e carezze quasi fraterne in una naturalezza disarmante, senza nemmeno il bisogno di scansare fobie che non dovrebbero esistere nel boschetto della mia fantasia. mi risveglio con due riccioli diversi accanto nel mio letto sotto gli alberi, il fango segna le orme di azioni dimenticate e ancora ora non riesco a schiarire i vetri appannati della mia testa.

ma, vaffanculo a tutto il resto. io resto.

non sto male, ma ho voglia di star meglio, perché so che è possibile, perché l’ho già vissuto, in scaglie di tempo che si sono conficcate con precisione tra l’aorta e l’intenzione. non vado in pace quando la festa è finita perché vorrei ritrovarmi sempre, come in un onirico appuntamento, in un mare di gente con cui parlare, facendosi confidenze ma senza dare troppo importanza alla parole, avvicinarsi con piccoli gesti semplici e caldi, accarezzando capelli e orecchie, guardandosi negli occhi dalle pupille non troppo cangianti, sfogando una massa di energia volatile buttandosi nella mischia di un pogo avvolgente, avendo a disposizione sempre la buona scusa che, alla fin fine, non è colpa nostra, quasi tutto ci è permesso con il pretesto di essere posseduti da molecole, come se bastasse inondare le tubature delle città con chili di emmedi perché davvero gli stronzi cessino di essere stronzi. eppure non è così e lo sento fin troppo bene, qui a leccarmi le ferite sulle gengive, sola dietro vetri appannati a sognare mischiando fantasie e ricordi spersi. e chissà cosa e quanto dovrò aspettare…io che non voglio attendere nemmeno più un attimo su una panchina fretta en attendant Godot!

coppie di fanti

il ticchettio della pioggia scandisce l’incessante scorrere delle ore che galleggiano nella mia testa dopo un’inaspettata serata . un’armonia inattenduta e ritrovata attorno a un tavolo verde su cui rotolano palle dalla traiettoria incerta come il nostro destino. gocce che colano calde nell’esofago, seduti ridendo al suono di un brasile lontano. e mi ritrovo perfino a incendiare con una verve da bar sconosciuti che si credono carl marx, senza rinunciare mai alla rivoluzione. incontri casuali di storie tristi di una pelle che ti marchia a vita e traccia le sbarre dietro a cui ti vorrebbero far stare. una giacca canarino esula la consapevolezza cruda di una vita da esiliato in una sedicente repubblica multietnica. ma non ha paura di condividere tracce di vita.  post sconnesso come le ore che passano talmente veloci da rendere incredibile la voce stanca di un vecchio barista affaticato e dolcemente gentile che non si stanca mai di servire e offrire caraffe di bianco biologico e birre belghe. la zuppa mi scalda il cuore, senza che si sia davvero raffreddato sotto le nubi di un inizio d’autunno in cui ho saputo prendermi il tempo che mi spetta, giorni in cui un mosaico di colori mi resta impregnato in testa e di cui la sola paura è che mi sono allontanata da una vita incessantemente fatta di incontri perenni,  scambi e legittimi attimi al rallentatore di postumi che ti obbligano a letto.  scappo sotto la pioggia per non bagnarmi, paradossalmente sognando di un tuffo in acqua. inaspettata felicità improvvisa, ma forse è vero che è solo questione di predisposizione a lasciarsi andare, a lasciarsi impregnare come una membrana permeabile, desiderosa di osmosi con gli altri tasselli di questa fotografia in movimento.

foto di Emotikill http://emotikill.deviantart.com

volevo solo dormirgli addosso

agli antipodi di un film da salvare solamente per il titolo,  mi ritrovo impregnata dello zolfo acido e zuccherato delle vigne fino nelle ossa e nelle fibre del cotone sdrucito che porto addosso.  angosciando del lavoro che mi aspetta silenzioso e ordinato con un solo callo sulle mani graffiate, accantono e mi getto a capofitto tra i filari e le risate che coprono i ticchettii delle cesoie sulla vigna. non smetto di innamorarmi fugacemente di tutti gli amici che imparo a reincontrare, dopo una parentesi che, con un sospiro di sollievo, mi illudo che quasi sembri fermarsi. in realtà, so bene che è schiusa solo a metà e tutto quello che ho vissuto tra le sue anse non si cancella e non se ne va, come il tannino negli anfratti della pelle.  ma ho saputo forse mettere un punto e virgola e distillare bene e piacere anche da ciò che mi sembrava buio e rimorsi per poter guidare galleggiando su una strada sgombra tra la gariga. mi sono svegliata ed ho incontrato l’autunno, all’improvviso, con lo iodio e  la peronospora tra i pomodori e le zucchine senza colore, una luce biancastra che rispecchia i riflessi di un cielo raggrinzito come se fossi su una polaroid uscita in scandinavia.  ma mi cullo in una stagione di raccolta e defonce, azzardandomi a trovare le gocce di bonheur in sostanze e casti caldi abbracci al mattino nelle goccioline di una foschia che se ne va nelle metafore come nella vita. sembra incredibile piombare nella stessa situazione in cui non ho osato osare e vedere che il cielo non si è schiantato sulla mia faccia solo per qualche carezza drogata, anzi tutto continua come se nulla fosse, mentre nulla non è. senza cercare scuse per rammaricarmi ancora, posso giocare ad immaginarmi cosa può succedere attardandomi ancora a raccogliere bacche di biancospino o a respirare un alito che sa di chimica e alcool. e sebbene mi svegli con il pianto straziato della malattia d’amore e di speranza accanto, rido rinvigorita dall’affanno, scossa dal capire tutto ad un tratto che le onde non scorrono in una sola direzione, ma si infrangono e ripartono e, come in una serie televisiva di basso costo,  i sentimenti nascosti si intravedono così tanto da potersi sentire. e come mi racconta una giovane voce roca, non sono solo fantasmi e castelli di carte che mi costruisco attorno ai fuochi delle notti insonni, anche se pecco di una insicurezza tetanizzante. il bacillo della mancanza di fiducia mi blocca ogni fibra muscolare, lasciandomi solo articolare qualche cazzata acida che nemmeno delle molecole fabbricate apposta riescono davvero a sciogliere. intrappolata ma felice di vedere l’uscita, di scorgere che basta spingere un pochino di più per abbracciarmi con la felicità effimeramente duratura. perchè un attimo di benessere resta appiccicato come una cartolina di tramonto e amore su un frigo d’adolescente e contribuisce a costruire ciò che passa nelle sinapsi arrugginite sotto la pioggia.  e delle volte mi ritrovo in déjà vu in crescendo a spirale, come se non fosse davvero la prima volta che mi sento dire, in una serata di ghirlande, mi ricordo di te, siamo andati a fare il bagno insieme. stessa spiaggia e stesso mare, stessi scogli bianchi, caldi e graffianti, l’acqua cristallina di un porto di vita, i pesci che galleggiano tra il vino bianco e il tiaccaci, i capezzoli induriti dal sale e il freddo di un’immersione troppo prolungata tra gli scogli. ma bando a qualche attimo di ricordo che si attorciglia e mescola su auto sporche e vecchie con il rap e la musica a donf nelle arterie di una città che profuma di pastis e spray di bomboletta, mi ritrovo ad esitare prima di riconoscere un viso su cui effettivamente avevo buttato qualche pensiero azzardato.

ma, ancora una volta persa in racconti di ulivi, arance, mandorle e vecchi amori ingarbugliati, si conclude in nulla, anche se mi resta in mano il filo di quella ragnatela di sentimenti fugace e dall’apparenza talmente delicata che sembra impossibile che l’elefante dei postumi e del down possa dondolarcisi sopra. fremo nel dirmi, accasciata svuotata davanti ad uno schermo su cui passano film che accarezzano il mal di testa e il dolore a schiena e reni, che tutto non fa che cominciare. e mi chiedo fino a che punto non mi sia servito l’avvallo di un corpo che troppo ben conosco, che mi vergogno perfino un po’ si saper gestire per far godere e prendermi le dosi di endorfine che mi spettano. perchè sebbene abbia l’impressione che puzzi di vecchio e stantio, mi rendo conto com’è pur sempre vivido e verace quel battere del cuore e quelle carezze stanche quando non so smettere di piangere. e nulla mi impedisce di sentire una mano più pesante sulla mia schiena, dell’inchiostro sottocute incredibilmente vicino ai miei occhi. senza che voglia dire niente di più che un urlo punk di rien-à-foutre e ho voglia di lasciarmi andare come ho già fatto senza rimorsi.

e anche se una data mi pesa come una ghigliottina sulla testa, mi illudo di saperla mandare affanculo a tempo, perchè non mi risucchi nel suo perbenismo inutile perfino per fare la spesa.

senza speranza, attendo fiduciosa, nuotando ad elica controcorrente.

foto di valentinadi http://www.flickr.com/photos/valentinadi/5687678846/in/photostream

quello che non ho è quello che non mi manca?

aggiungo insolente interrogativi a iosa, anche alla prosa cantata di un poeta senza tempo. sbarco dopo qualche settimana lontana dalla banalità di questa viuzza stretta e mi ritrovo a scontrarmi con il rancore inutile della vita atomizzata.

ho voglia di carezze e massaggi a scivolare su tutta la pelle per alleviare l’indolenzimento di muscoli e cuore, ne ricevo qualcuna senza sorprendermi di non averne abbastanza. fantastico scambiando sguardi con riccioli e barbe con cui non mi dispiacerebbe avvinghiarmi. mi attardo sperando che un ultimo discorso ci faccia cadere addosso, ma non so come faccio a restare sempre in piedi.mare, graffiti, cancello

e se da un lato mi accarezzo, dall’altro, mi incazzo senza ritorno, rabbia irosa di fronte a sbarre e grate di filo spinato, rinchiusa in uno stanzino sotto gli occhi attenti di uomini in divisa. il caldo di un sole che squaglia l’asfalto sporco di quartieri che nemmeno la corsa irrefrenata di un capitale trituratore riesce per il momento a schiacciare. e lo sguardo disperato di una nonna a cui hanno spedito via il nipotino legato come un salame imbottito di psicofarmaci mi fa male quanto le tracce di un pugno en plein geule. e accanto alla vecchia algerina, il sorriso della sua nipotina senza peli sulla lingua e  l’immagine di uno zodiac con tre uomini che ridono, oggi, con un anello al dito e un documento nel portafoglio. e, come in un appuntamento al buio, vedo appiccicare un volto su un nome che ho sentito spesso riecheggiare, un volto con gli occhi neri dalle pupille tristi che mi ringrazia, crudelmente rassegnato alla forza della disperazione, senza che io sappia articolare più di uno sputo alle sbarre. il rumore dei chiavistelli che si chiudono mi fa gelare il sangue, anche se rimbomba lontano al di la della cornetta.

e i chilometri che scorrono nella notte d’adrenalina, il sudore che gocciola sugli occhi,  fatica di muscoli tesi alleviata da epinefrina, riesco a relativizzare proibizioni e divieti su racconti dell’antico egitto, albe d’alcool, scherzi e speranze in  vecchie case abbandonate. e rintronata da un fumo spesso, sotto i lampioni arancioni, mi muovo in una massa rincuorante per far fronte a capetti di quartiere. vecchi amici come nuovi, ritornare su strade che ho percorso fino a consumarmi le scarpe ritrovando una città troppo difficile da abbandonare in balia della sua marea ventosa. senza capire come me ne possa essere andata, saluto gente seduta al tavolino di un bar al centro, discuto di  nomi di viuzze e bon plans per cavarsela meglio come se nulla fosse cambiato. perchè alla fine, sono partita credendo di lasciare pomodori e barbabietole e ho ritrovato orti selvaggi e piante a sfidare i cemento e l’asfalto.