amorfe forme informi

Incapace di tagliarmi i capelli, mi dico che non avrei dovuto trasferirmi su un nuovo blog con la zavorra del bagaglio dei miei vecchi post.

la pesantezza di mesi che mi porto addietro non si alleggerisce trasportando di blocco chili di byte del passato. sacchi di cemento sulle spalle e braccia a spalare sabbia e mani alla cazzuola mi pesano nella voglia di chiudere una parentesi che sembra grande quanto me.cemento illusioni effimere come polvere e calcare

quando si tratta di tempo è facile illudersi di ritornare indietro, ma si scorre sempre in avanti. le situazioni cambiano, nonostante la mia maldestraggine resti.  goffa come una bambola, metto a nudo la mia sete di altri senza saperla esternare quando potrei lasciare trasparire gocce di attenzione.

che mi manchino le palle nelle relazioni umane è un fatto dietro a cui creo ostacoli insormontabili per legittimarmi la fuga e atterrare inevitabilmente tra i rovi.

parola dopo parola riesco a ricamare frasi dalla mia testa, è una maieutica difficile e dolorosa, senza ragione, senza motivo, semplicemente perché vorrei fosse altrimenti.

che ogni parola non dovesse uscire scorticando faringe e palato, sarebbe la prova che o sono ubriaca o fatta di adrenalina e altre storie. e invece,  ogni sillaba sembra una scheggia di biancospino nel polpaccio. tremano i fonemi, insicuri della loro inutilità, come a rimbombare in una stanza dall’intonaco appena rifatto e ancora la polvere del cemento negli angoli.

come dire al respiro vicino di lasciarti sola con le tue fantasie, con i tuoi ricordi di un fugace scambio di sguardi, con le tue  illusioni effimere come polvere e calcare?

perché le catene mi legano a ciò che ho paura di lasciare, ben sapendo che per spezzarle non ci vorrebbe più niente da perdere.

foto di hjsybnmhoimhnbu

EN 197-1 CEM II$A-LL 32,5 R

spazi e paure

mi faccio perseguitare la notte dal fantasma di un monolocale in cui rimbomba l’eco della mia incapacità cronica. eppure quando una palla d’energia piomba in casa, suonando il campanello, mi sento invasa e mi lascio prendere dall’angoscia del chiedere, parlare a chi non conosco. timore umano, ma più fondato per me di quanto non lo sia per chi versa tonnellate di lacrime gridando alle persone che ha vicino di non avere amici. io mi sprofondo in una poltrona che vorrei mi inghiottisse con la sua vecchia imbottitura. e putain merde c’est sempre la vecchia stessa storia. ho paura che il freddo del metallo sporco di grasso degli utensili in un’officina potrebbe rimbombarmi in testa, ma non so nemmeno come possa essere, se non nel cercare un’irrazionale risposta nelle leggi delle probabilità matematiche che ho sempre disprezzato. ho voglia di fare lo struzzo grido da sotto le coperte a chi mi vuole bene pur facendomi (talvolta) del male, ma mi obbligo, tremante ed impaurita, ad uscirne senza convinzione, a prendere una chiave a bussola ed ad ungermi le mani fino ad annerile, senza riuscire a fare nulla (di più).

foto di Mr Kobe http://mr-kobe.deviantart.com/

in un giorno assolato d’ estate

sere fresche al caldo di un abbraccio  e baci come fragole appena raccolte, mi affaccio su un paesaggio di distese d’erba e cardi, fiorellini e achillea lungo le colline e le rocce scavate dal tempo.  sole tra le foglie sugli alberi, un eremo abbarbicato su una roccia scoscesa in mbuco, stenopea, recinto, filo spinato, montagnaezzo ad una valle, un motore che canticchia tranquillo e la luce che brilla nelle giornate d’agosto. e dura un battito di palpebre senza che possa saziarmene. anche se delle volte, sotto il sole cocente di un ombrellone che costa troppo per far ombra, a sentire storie di anelli e esercito nelle veci di polizia, tra le alghette marroncine che galleggiano sulle pietre levigate, ingurgitando redbull rum come a credere di essere ancora tra i banchi, crogiolandosi fino all’alba nella sabbia all’idea di pandistelle che si sciolgono sulle papille di lingue che vorrebbero incontrarsi, tre giorni sono quanto basta per tenere a mente una fumata sul balcone della nonna dietro le tendone spesse ridendo a crepapelle di difficoltà a cui c’è una soluzione dietro ogni angolo. ma qui, fotografo attimi attraverso i miei pantaloncini di tela bucati e la montagna mi sorride capovolgendo il vecchio filo spinato arrugginito.

mi dico che parto, prendo l’ancora sentendomi spersa in una canzone melanconica come a diciasett’anni, e se mi preparo ad abbandonare pomodori e barbabietole, è sempre sperando che ci sia poi un giorno per mettere il basilico nei vasetti di pesto. gli interrogativi di una serata scura sui ciottoli del fiume rimbombano soli tra i miei desideri bucolici e le mie voglie di defonce. il profumo della lavanda calma le mie notti insonni, la voglia di riuscire ad uscire da quei labirinti di libri e fogli mi fa dire che verranno momenti migliori. e le rive del mare…