secco al vento d’estate

accumulo pensieri senza fine che si attorcigliano come i pistilli di caprifoglio arrampicati sulla caviglia.

e, tutto intorno, i semi di finocchio aprono ombrelli contro gli ultimi raggi ocra tra le nuvole plumbee.

secco
un soir de tramontane – vue du camion

 

So bene che non basta l’azzurro cristallino del cielo terso per sgombrare testa e gola dal groppo che pesa fino a togliere il respiro. Non è lo zaino, né la spalla, a tenermi indietro, ma la spossatezza che mi inciterebbe a lasciarmi rotolare pur di allentare la tensione.

Gli aghi di pino e i ricci di castagne mi farebbero meno male dei pensieri conficcati tra i neuroni.

Per una volta, non mi costringo a continuare, come invece pedalando sulla polvere accecantemente bianca e calda che spingo sotto i tendini.

un abbraccio accoglie i miei singhiozzi capendo che non sono i sogni che infestano il mio umore, ma l’onirico labirinto in cui sguazzo è lo specchio torbido delle percezioni quotidiane.

Le soluzioni che propone mi sembrano far acqua da tutte le parti, ma è la mia paura di guardare il fondo del pozzo del mio essere che alimenta le tubature che sgorgano.

nel frattempo, mi limito ad acclamare i conati che spostano oltre timori e tensioni. basta incitarmi ancora, prendermi in mano e continuare, buttarmi a capofitto nel susseguirsi di istantanee pur di non vedere. occorre ammettere che opporsi al malessere senza immaginare neanche di poterlo cancellare significa subirlo.

 

Foto mia (CC) BY NC

teuf

Je rêve d’une réelle guerre idéale
Où les frères sortiraient des halls direction les halles
Et on serait bien plus de 50 000 en centre ville
A traiter la police comme une bande rivale

cd incastrato tra le grinfie di un’autoradio mi riporta su terra, nella difficoltà sormontabile di gestire un furgone su asfalto tappezzato di foglie umide, obbligandomi a non pensare alla nebbia dolce del bosco nel quale mi sono svegliata.

e oggi, non posso non amare l’indolenzimento che fa scricchiolare ogni mia fibra muscolare respirando ad ampie boccate, segno tangibile di un irreale realtà trascorsa davanti ai miei occhi e tra le mie dita. e sebbene, no, non ce ne usciamo la notte a costruire barricate infiammate dal sole dell’avvenire, sogno condiviso del tempo dell’attesa, in una serata di un autunno mite, ci limitiamo a  sovvertire un quotidiano costruito dal malessere reificato di orari e griglie, di obblighi e morale prendendo piacere. piacere di abbandonare in un virtuale allontanamento fattuale gli scazzi e le costrizioni da cui ci vediamo fin troppo spesso attanagliati.

gola graffiata, pelle interna delle guance lacerata, arti anchilosati, indolenzimento diffuso, occhi che si chiudono su se stessi sono un obolo in saldo se permettono di ottenere, con il solo limite di un arco di tempo delimitato, una fiducia in se’ e una sicurezza ostentata che in tempo normale mi costerebbe così tanto da doverci fare un mutuo. invece galleggio tra luci colori suoni e carezze quasi fraterne in una naturalezza disarmante, senza nemmeno il bisogno di scansare fobie che non dovrebbero esistere nel boschetto della mia fantasia. mi risveglio con due riccioli diversi accanto nel mio letto sotto gli alberi, il fango segna le orme di azioni dimenticate e ancora ora non riesco a schiarire i vetri appannati della mia testa.

ma, vaffanculo a tutto il resto. io resto.

non sto male, ma ho voglia di star meglio, perché so che è possibile, perché l’ho già vissuto, in scaglie di tempo che si sono conficcate con precisione tra l’aorta e l’intenzione. non vado in pace quando la festa è finita perché vorrei ritrovarmi sempre, come in un onirico appuntamento, in un mare di gente con cui parlare, facendosi confidenze ma senza dare troppo importanza alla parole, avvicinarsi con piccoli gesti semplici e caldi, accarezzando capelli e orecchie, guardandosi negli occhi dalle pupille non troppo cangianti, sfogando una massa di energia volatile buttandosi nella mischia di un pogo avvolgente, avendo a disposizione sempre la buona scusa che, alla fin fine, non è colpa nostra, quasi tutto ci è permesso con il pretesto di essere posseduti da molecole, come se bastasse inondare le tubature delle città con chili di emmedi perché davvero gli stronzi cessino di essere stronzi. eppure non è così e lo sento fin troppo bene, qui a leccarmi le ferite sulle gengive, sola dietro vetri appannati a sognare mischiando fantasie e ricordi spersi. e chissà cosa e quanto dovrò aspettare…io che non voglio attendere nemmeno più un attimo su una panchina fretta en attendant Godot!

volevo solo dormirgli addosso

agli antipodi di un film da salvare solamente per il titolo,  mi ritrovo impregnata dello zolfo acido e zuccherato delle vigne fino nelle ossa e nelle fibre del cotone sdrucito che porto addosso.  angosciando del lavoro che mi aspetta silenzioso e ordinato con un solo callo sulle mani graffiate, accantono e mi getto a capofitto tra i filari e le risate che coprono i ticchettii delle cesoie sulla vigna. non smetto di innamorarmi fugacemente di tutti gli amici che imparo a reincontrare, dopo una parentesi che, con un sospiro di sollievo, mi illudo che quasi sembri fermarsi. in realtà, so bene che è schiusa solo a metà e tutto quello che ho vissuto tra le sue anse non si cancella e non se ne va, come il tannino negli anfratti della pelle.  ma ho saputo forse mettere un punto e virgola e distillare bene e piacere anche da ciò che mi sembrava buio e rimorsi per poter guidare galleggiando su una strada sgombra tra la gariga. mi sono svegliata ed ho incontrato l’autunno, all’improvviso, con lo iodio e  la peronospora tra i pomodori e le zucchine senza colore, una luce biancastra che rispecchia i riflessi di un cielo raggrinzito come se fossi su una polaroid uscita in scandinavia.  ma mi cullo in una stagione di raccolta e defonce, azzardandomi a trovare le gocce di bonheur in sostanze e casti caldi abbracci al mattino nelle goccioline di una foschia che se ne va nelle metafore come nella vita. sembra incredibile piombare nella stessa situazione in cui non ho osato osare e vedere che il cielo non si è schiantato sulla mia faccia solo per qualche carezza drogata, anzi tutto continua come se nulla fosse, mentre nulla non è. senza cercare scuse per rammaricarmi ancora, posso giocare ad immaginarmi cosa può succedere attardandomi ancora a raccogliere bacche di biancospino o a respirare un alito che sa di chimica e alcool. e sebbene mi svegli con il pianto straziato della malattia d’amore e di speranza accanto, rido rinvigorita dall’affanno, scossa dal capire tutto ad un tratto che le onde non scorrono in una sola direzione, ma si infrangono e ripartono e, come in una serie televisiva di basso costo,  i sentimenti nascosti si intravedono così tanto da potersi sentire. e come mi racconta una giovane voce roca, non sono solo fantasmi e castelli di carte che mi costruisco attorno ai fuochi delle notti insonni, anche se pecco di una insicurezza tetanizzante. il bacillo della mancanza di fiducia mi blocca ogni fibra muscolare, lasciandomi solo articolare qualche cazzata acida che nemmeno delle molecole fabbricate apposta riescono davvero a sciogliere. intrappolata ma felice di vedere l’uscita, di scorgere che basta spingere un pochino di più per abbracciarmi con la felicità effimeramente duratura. perchè un attimo di benessere resta appiccicato come una cartolina di tramonto e amore su un frigo d’adolescente e contribuisce a costruire ciò che passa nelle sinapsi arrugginite sotto la pioggia.  e delle volte mi ritrovo in déjà vu in crescendo a spirale, come se non fosse davvero la prima volta che mi sento dire, in una serata di ghirlande, mi ricordo di te, siamo andati a fare il bagno insieme. stessa spiaggia e stesso mare, stessi scogli bianchi, caldi e graffianti, l’acqua cristallina di un porto di vita, i pesci che galleggiano tra il vino bianco e il tiaccaci, i capezzoli induriti dal sale e il freddo di un’immersione troppo prolungata tra gli scogli. ma bando a qualche attimo di ricordo che si attorciglia e mescola su auto sporche e vecchie con il rap e la musica a donf nelle arterie di una città che profuma di pastis e spray di bomboletta, mi ritrovo ad esitare prima di riconoscere un viso su cui effettivamente avevo buttato qualche pensiero azzardato.

ma, ancora una volta persa in racconti di ulivi, arance, mandorle e vecchi amori ingarbugliati, si conclude in nulla, anche se mi resta in mano il filo di quella ragnatela di sentimenti fugace e dall’apparenza talmente delicata che sembra impossibile che l’elefante dei postumi e del down possa dondolarcisi sopra. fremo nel dirmi, accasciata svuotata davanti ad uno schermo su cui passano film che accarezzano il mal di testa e il dolore a schiena e reni, che tutto non fa che cominciare. e mi chiedo fino a che punto non mi sia servito l’avvallo di un corpo che troppo ben conosco, che mi vergogno perfino un po’ si saper gestire per far godere e prendermi le dosi di endorfine che mi spettano. perchè sebbene abbia l’impressione che puzzi di vecchio e stantio, mi rendo conto com’è pur sempre vivido e verace quel battere del cuore e quelle carezze stanche quando non so smettere di piangere. e nulla mi impedisce di sentire una mano più pesante sulla mia schiena, dell’inchiostro sottocute incredibilmente vicino ai miei occhi. senza che voglia dire niente di più che un urlo punk di rien-à-foutre e ho voglia di lasciarmi andare come ho già fatto senza rimorsi.

e anche se una data mi pesa come una ghigliottina sulla testa, mi illudo di saperla mandare affanculo a tempo, perchè non mi risucchi nel suo perbenismo inutile perfino per fare la spesa.

senza speranza, attendo fiduciosa, nuotando ad elica controcorrente.

foto di valentinadi http://www.flickr.com/photos/valentinadi/5687678846/in/photostream