poli-glotta

cela me perturbe, sans que ça m’affecte

j’ai attendu des années et je viens de voir Godot ne pas arriver dans une salle de théâtre

la tension s’offusque quand je vois que je ne suis pas la seule à perdre l’émerveillement face aux lunes qui cèdent le pas aux jours et, enfin, à comprendre que le sens, c’est qu’il y en a pas. Pas de sens dans le vain espoir de voir surgir quelque chose d’autre à l’horizon: sa ligne peut varier sous mes yeux et m’amener à d’autres jours où même l’espérance est en trop. Car c’est dans une attente, si ce n’est pas une, que les choses se passent: la rencontre avec un improbable Pozzo et son penseur qui articule jeux de mots à répétition.

Je suis moins seule dans le désert devant l’arbrisseau et ses deux feuilles.

Et je n’ai pas de comptes à rendre ou de jeux à jouer. Les choix des autres se font au-delà de moi et je n’ai pas à me sentir responsable ni coinvolta.

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Foto di https://imagemalice.deviantart.com/art/En-attendant-206361102

Je me demandais la valeur de ma présence et, bien, ce n’était aucune que je ne puisse pas donner en étant pas là. moi, si j’y suis, je vais y être: ça compte pour ce que je vis et le peu qu’on partage. Ce n’est pas grave si on a décidé que ce ne sera pas des mois entiers, je vais peut être servir de porte de sortie sur le monde, une issue que ne se résout pas à un petit coin de montagnes perdues. J’ai peur des rôles, tellement que je m’y forge dedans, mais ce n’est pas pour rien que j’en veux pas…

J’apprécie que ça se soit passé sans moi, je regarde de loin de petites mains se serrer en poing.

Je n’attends plus les dix heures du soir en préparant un bon plat fumant, je fume de l’autre côté du mur en voyant se dissiper mes peurs d’apercevoir ma tranquillité enfin balayée, si je le veux, dans un coin.

Sono una terapia*

Un raggio di sole mi scalda la spalla. Ma, finalmente, le metafore le lascio marcire: ho voglia di sudore vero a scaldarmi la fronte.

Lunghi mesi di assenza dal virtuale di questa piattaforma, non perché siano passati così lisci che non servisse nemmeno più olio tra gli ingranaggi. Solo la morchia a infangarmi le dita e a trasformare in sudicio nero tutto ciò che tocco, olio esausto come sipario di fronte al viso.

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Nebbia e sole, il grigiore si infiltra ma traspare un raggio… Foto di https://joe-tony.deviantart.com/

Pensavo di poter mettere nero su bianco solo quando malinconia e irrequietezza prendevano il sopravvento. Credevo, come un poeta maledetto, che il malessere facesse scrivere. Mi sono accorta, a mie spese, che il malessere segna con il nero di un inchiostro inesistente i giorni che restano bianchi, come fogli che non riescono a riempirsi. Le frasi vagheggiano, senza sapersi fermare, attanagliate dall’angoscia di vedersi fissare in una forma che non è mai quella giusta. E aleggiano, infestando con i loro fantasmi occhi, cuore e mente. In questi mesi di nuvoloni scuri ho a malapena macchiato qualche carta con lacrime sparse, riuscendo a scatti a far emergere il magma che mi rode.

A forza di provarci, di volerlo, riesco poco alla volta a respirare più dolcemente. Ad ammettere ciò che cerco, ad accantonare ciò che mi fa troppo male. Non che sia andata davvero (più) lontano, ma che vuoi, già scorgere un orizzonte non è proprio così scontato. Ho avuto paura che lo scrivere fosse terapeutico, o almeno che l’obbligo intrinseco delle frasi ordinate mi costringesse a dare un senso che non riuscivo a trovare.

Lungi dall’aver ricomposto i cocci, già due giorni senza scosse e pianti danno una tregua che spero duri.

 

[*] Titolo dalla canzone Curami dei CCCP

Ancora toponimi

Ci sono giorni che assomigliano a incubi e notti dalle parvenze di sogni. I primi infestano le ore, facendole strascicare lente e faticose; i secondi scorrono talmente rapidi da restare appena incisi sulla retina. I colori si amalgamano, leggerezza e pienezza non hanno tempo di insidiarsi nello sguardo, le parole scorrono e mi avvolgono tra la melodia di un ghettoblaster o lo scoppiettio di un forno per le pizze, i baci non dati accarezzano i contorni sfocati della notte. Nei secondi. Mentre invece, la luce chiara di giorni appena estivi traspare al di là delle lacrime, gocciolando tra inviti non ricevuti, risi perduti, lontananza tagliente, cupezza di un orizzonte che non vuole scollarsi dal mio panorama. Stanze che rimbombano intanto che i miei neuroni si perdono nel vuoto e restano sospesi nell’incapacità di mettere un piede fuori o alzare una cornetta per ricevere un suono confortante. Essere un’isola richiede troppe forze per me. Ci vorrebbe un cemento che resista all’acqua di mare, come quando rubavamo la sabbia dalla spiaggia per fare il calcestruzzo. Ci vorrebbe un incessante via-vai di traghetti e barche a vela per assicurare un approvvigionamento costante di sentimenti accoglienti. Ci vorrebbe il vento giusto per prendere il largo ogniqualvolta ne spunta il desiderio. E invece mi blocco sul cucuzzolo di una montagna inesistente, tra le lamiere delle roulotte metà colorate e metà arrugginite, con un pinguino che mi permette di allineare byte in parole. Con una spalla a tratti dolorante nuoto chilometri di piastrelle nel timore costante di rivedermi mongolfiera riempita di zavorra. Un pallone d’aria incapace di volare, come quello imprigionato dalle corde sulla piazza del Balon. E mi insudicio di rancore: so che non si può tornare indietro, ma vorrei ben sapere come andare avanti, senza una stella nel motore, senza benzina per i neuroni, come lasciarsi andare al vento e osare qualcosina di più che ettolitri di lavanda e melissa. Perché il calore relativo di gesti ripetuti finisce per farmi soffocare, più di quanto non facciano i quaranta gradi che sciolgono l’asfalto, ma lasciano aperte mille possibilità dell’eventuale. Piango nel sapere che impantanata nella pece ci sono solo io, non che voglia vederci annaspare chi mi sta attorno, ma un braccio o una scaletta per uscirne fuori senza scottarmi con i vapori del catrame non sarebbero di troppo. E nel frattempo, in quelle sere infinite dai contorni onirici, tra la coibentazione al compensato di furgoni cassonati, mi inebrio al fumo spesso di un bitume che bolle, scuro e nauseante. E anche questo sarà un piacere da condividere effimeramente, attorno ai fornelli di una casa abbandonata, sulla brillantezza sferragliante, o con un cannello che soffia. Non sta in questo il problema, i vizi non sono (sempre) una gioia; invece la letizia sta nel varcare la porta del mondo insieme, senza restare a guardarmi attorno tra i lacrimogeni in una città sconosciuta senza un cappuccio, senza soluzione fisiologica e uno striscione che abbraccia e protegge dallo sfrecciare dei colpi di flashball. Senza crederci e senza speranze, riesco quasi sempre a trovare qualcuno con cui condividere il freddo urbano e il grigio di conglomerati troppo lontani dal mare. Invece, tra il verde dei pini e delle acacie, tra fiori fossili e boccioli, mi lascio marcire in una pozzanghera, afona, con lo scrosciare delle lacrime che l’alimenta, con chicchi di grandine che battono incessantemente sulle corde vocali per bloccare discorsi che forse cadrebbero nel vuoto di un’eco. Al di là della valle posso quasi intuire un fischio amico, ma bisogna arrivarci a varcare la conca. Perché qui è grande.

Piume di piombo

Incapace di far sgorgare inchiostro e parole, allineo paragrafi farciti di citazioni e subordinate concessive. Capissi cosa voglio potrei lasciarmi andare contro dolci labbra che insoffiano i fumi vaporosi di una scappatoia quanto mai sicura.

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Oppure, dedicarmi a veder crescere pomodori e libri, ardendomi pure a condividere pennello colla e secchiello senza ostentare delusione e angoscia alla vista di un indirizzo.

Nel frattempo, mi barrico dietro ad uno schermo e davanti ad uno specchio che mi vede ansimare. Mi lascio accarezzare dalla brezza tiepida dei primi giorni di estate, le rondini sulla testa e tonno con maggiorana sulle papille. Non so se la stagnola sferragli o frema, mi ci guardo riflessa succhiando con avidità la felicità nascosta dietro le nuvole all’orizzonte. Non riesco a comporre i tasti per un numero, lascio distendersi gli elastici che vorrei appresso. Ah, ma allora, so cosa voglio? Nemmeno tra gli olivi riesco davvero a capirlo, che siano in riva a mare con il vento che spruzza la schiuma sulla bianchezza di un telefonino rigato o all’ombra di un casolare di pietra, addormentata con il mistral che soffia e davanti agli occhi nient’altro che la luna che sorge. Eppure, mi accoccolo davanti al caminetto scoppiettante, nelle ombre di una favola che viene da lontano, tessendo parole con riccioli forgiati. Tutti gli altri dormono.

I miei ingranaggi stridono.

 

foto di http://piombor.deviantart.com/art/Fiore-di-Stapelia-347413886

una notte spersa

Le luci degli aerei rincorrono la luna piena, in questa notte dalle stelle lampeggianti e dai fasci luminosi delle auto tra gli alberi.

Respiro kerosene senza avere le ali metalliche o piumose che siano.

Devo risolvere gli enigmi dei non detti, le menzogne per omissione e la verità selettiva di sguardi divergenti. Li affronto accantonando li, ma lungi dall’essere definito e definitivo.

Vorrei essere quello che sono, tanto non ci si scappa. E allora, tanto vale prenderci gusto.

Alti e bassi, sinapsi che si corrodono a corto di piacere

ecco, senza parole ne’ inchiostro incrollabili macigni virtuali tra la gola e le ali. Lacerano stritolando lo sguardo e l’orizzonte, peso sui fianchi e oppressione sul petto. Per dipingere fragranze di glicine e gelsomino, bisogna pur aver sotto gli occhi petali e pistilli. Me ne riempio i capelli annodati senza che passino dalle narici al cuore.

Afa senza brezza, tristezza con primavera.

Mi arrotolo, mi aggroviglio su un divano-giaciglio, la tensione assopita dalla stanchezza mi attanaglia i muscoli e il respiro.

non farne una montagna

Il profumo dolce dei petali stellati che appassiscono al sole punge come un veleno d’ape che si infiltra nei tessuti. Il pungiglione affilato dai contrasti che creo nella mia pelle è lo specchio fin troppo lucido di un’opposizione di acque che sa di classe. Renauld mi rincorre tra le sue vecchie note senza baci, ricordandomi che il posto al calduccio che mi sono costruita è distante dalle lacrime spremute e da tutto quello che ho avuto.

Non è questione di gratitudine, perché non si può essere riconoscenti per ciò che non si è scelto. C’è chi non ha scelta e scegliendo non ce l’ha avuta.

Non è questione di coraggio: si vive di pane e non mi è mai mancato (trovarlo in un cassonetto è pur sempre metterselo sotto i denti), ma si muore senza respiro e io affanno senz’aria ed orizzonte.

Avrei potuto anch’io camminare rotonda sulle assi di legno di una dimora montana, ma a dispetto del nome, non avrei potuto farlo serenamente. Ora avanzo su un lago ghiacciato, sperando che il freddo tenga sotto i piedi senza scivolare sulle rocce.

Equilibrista impacciata, funambola precaria sui fili delle ragnatele delle questioni accantonate che lascio marcire senza viverle.

Vorrei non doverle rispolverare con frequenza costante e levare gli acari che mi pullulano in testa, ma ritorno e fatico nel trovare il mio posto che non è in una poltrona di avanzi tessuti nei legami genealogici di un albero infestante.

Sono rovo: qualche germoglio che addolcisce la gola e salva dalla carestia, more che dissetano in una salita troppo lunga e sono spine che si arrampicano ostinate.

Potrei essere rosa canina, ma senza rami, i miei tentacoli non abbaiano.

vecchie canzoni

partire, tornare, farsi attraversare da paesaggi mozzafiato, aprire gli occhi e vedere l’oceano o un vulcano al di là del parabrezza.

sotto le stelle dentro un vagone

chiudo gli occhi e penso a te

ma li riapro e una nebbia fitta di lacrime irrora la mia vista .

Quattro anni fa la primavera era iniziata tra due giorni.

E oggi, niente più vino — che sia bianco, o sporco.

via della speranza

polvere e polveri seccano la pelle, come nere palline lasciano asciutta la bocca.

nuovi orizzonti sempre nella stessa direzione e mi stupisco della semplicità con cui sguazzo in queste nuove acque, come se bastasse imparare a nuotare per attraversare oceani e mare. ma, a parte un grigio fiume che scorre fluido come l’olio esausto, non c’è fondale dai pesci volanti in cui provare il piombo pesante della cintura per l’apnea.

forse è meglio stare a galla, una chiatta dall’attrito che si trova perfino una meta. pachiderma galleggiante che approfitta dei gas intestinali per muoversi quasi con una certa dolcezza, collisione dopo collisione in spazi sconosciuti.

anche se non so smettere di sentirmi impacciata, trasformo la zavorra in ovatta e prendo posto senza che le occhiate addosso mi scalfiscano.

(il titolo è un indirizzo)

Foto di http://rhumanticide.deviantart.com/art/Vagalam-III-309440010?q=Rhumanticide%2F3909700&qo=47

notte abbagliata

all’ombra della luna, lascio aloni pieni sul cuscino bagnato.

Alterno scoppi di risa, voglia matta di saltellare sfrusciando davanti allo specchio alla disperazione di una notte senza buio.

Down così naturale da essere inconcepibile e da lasciar vedere una fuoriuscita dal tunnel solo con una talpa chimica. Un giorno semi diva nella luce calda di una camera ritrovata nel farmi piacere ed un altro, verme che striscia sulle lenzuola nei rumori notturni. Mi lancio nell’arrampicata di salite dall’orizzonte illimitato nel tentativo illusorio di stancarmi per cadere addormentata. Ma non riesco nemmeno a trarre un po’ di fiducia in me stessa arrancando nelle necessarie fatiche della vita che se ti va bene puoi ammirare la via lattea riflettersi e brillare come lucciole su un lago alpino. E tra la nebbia e il calore, mi sfinisco nel piangere o nell’ingurgitare una pastiglia che non voglio, per poi lasciarmi cullare dal ripetersi di un documentario d’etnologia e montagne.

E se persisto nel pedalare dolcemente lungo i pendii aguzzi, arrivo fino in cima, tra il fresco degli alberi e del muschio che spunta dai rigagnoli. raggiungo una casa dove doccia, parole e cibo mi aspettano sotto la pergola d’uva e al chiaro rossastro di una luna che spunta tra colline e cinghiali. Mi abbandono nella nebbia illuminata ostinandomi a riempirmi il bicchiere, vuotare la bottiglia e consolidare il mal di testa per oggi.  l’eco di una telenovela si ripercuote in tutta la vallata, facendo vibrare castagne e nocciole, ma lasciando intatta la mia contemplazione. Mi rendo conto che non sto nemmeno male, posso voler poco di più dall’andare sulle onde delle mia ginocchia raggiungendo orizzonti dove profumano petali diversi. E anche oggi, è troppo facile credermi felice medusa dai tentacoli variegati, resta ancora da vedere senza il sobbollire acre di un pentolone nero.

uscendo dalla parentesi

Tra il mare di parole di ore vendute e le liste senza virgola dei primi anni 2000, realizzo che non c’è bisogno di andare in Cina o sulla luna per raccontare una storia. è una vita anche quella dei baci in un cinema il pomeriggio. ma, visto che nella mia, dietro al tendone spesso e impolverato della scura sala di provincia non ci sono mai stata e che non mangiavo smarties né fumavo MS morbide a quindici anni, ho dovuto metterci qualcos’altro che non si limitasse a rimpiazzare la saliva adolescente. e ci è finito dentro un po’ cosa ho trovato e anche quello che (non) mi sono cercata. mi vedo accanto al telefono pedalare lungo i campi dicendomi che è l’estate dei miei sedici anni. e adesso, manco ci penso più che è estate, se non per le bolle al sole, il vento caldo e l’acqua del mare. Non ho finito di pedalare, colline di erbe secche, un ponte in costruzione, la polvere e i sorrisi degli operai, un grande tag su una casa diroccata in lontananza. e sento la stessa pressione senza guardare alle stagioni, mi è pure capitato due volte lo stesso giorno di febbraio attorcigliare lingue da far battere il cuore. timida impacciata lo sono stata e me lo sento ancora addosso, davanti ad un film schermato dal lattice scuro. e il tutto finisce senza inizio, perché non ho bisogno di pensare per rincorrere l’ambulanza, scegliendo senza la mia salutare tipica esitazione di condividere fortimel e umidità grigia. accompagnare non è vivere insieme, pretesto doloroso per mettere tutto in un angolo, senza pensare che non avrei bisogno di aspettare i risultati dei raggi che non perforano le membrane. il sole all’arrivo che mi inganna, quasi avesi preso un aereo atterrato in un paese tropicale, gli sguardi famigliari di amici a cui neppure avevo più pensato non sono destinati a durare. né le dolci coperte e la finestra aperta sui grilli. L’aura chiara di un alone attorno alla zanzariera me l’aveva fatto pensare. Senza presentimenti, timori o paure, come ogni volta che vedevo scodinzolare, prima di partire, delle zampe che ho visto smettere di muoversi. mi resta da recuperare più di un mese di tempo per me, anche se quello prima l’ho fatto scorrere così velocemente da volerlo fermare. rincorrere l’ambulanza, correre dietro al pianto scosso d’angoscia dell’eco di una cornetta. non mi fa piacere, me lo accettano come ruolo dovuto. non me lo chiedo neanche, lascio le chiavi in mani sconosciute e tento di addormentarmi sui sedili in autostrada. un treno che, pur andando all’incontrario, non è completamente quello dei miei desideri. nessun rimpianto a vedere le lacrime sulle guance arrossate, immersa in un’altra dimensione che non è il mio reale. un corsetto di buone maniere che so allacciare alla perfezione fino a farmi mancare il fiato con il sorriso sulle labbra. artificialità convenzionale famigliare, un altro universo con i suoi pianeti e la sua gravità altra, ma mi ricorda differenze e attriti da quello a cui non so né sfuggire né negare né abbracciare. a quello a cui vanno i miei sentimenti contrastati per l’avermi formato a quello che sono oggi. sul mio letto, in un furgone, sotto le stelle tra le vigne accanto a un lago.

pensieri sgorgati dal vento dopo la lettura di Aldo Nove, Amore mio infinito, un mese di giugno difficile e ricordi sparpagliati.

secco al vento d’estate

accumulo pensieri senza fine che si attorcigliano come i pistilli di caprifoglio arrampicati sulla caviglia.

e, tutto intorno, i semi di finocchio aprono ombrelli contro gli ultimi raggi ocra tra le nuvole plumbee.

secco
un soir de tramontane – vue du camion

 

So bene che non basta l’azzurro cristallino del cielo terso per sgombrare testa e gola dal groppo che pesa fino a togliere il respiro. Non è lo zaino, né la spalla, a tenermi indietro, ma la spossatezza che mi inciterebbe a lasciarmi rotolare pur di allentare la tensione.

Gli aghi di pino e i ricci di castagne mi farebbero meno male dei pensieri conficcati tra i neuroni.

Per una volta, non mi costringo a continuare, come invece pedalando sulla polvere accecantemente bianca e calda che spingo sotto i tendini.

un abbraccio accoglie i miei singhiozzi capendo che non sono i sogni che infestano il mio umore, ma l’onirico labirinto in cui sguazzo è lo specchio torbido delle percezioni quotidiane.

Le soluzioni che propone mi sembrano far acqua da tutte le parti, ma è la mia paura di guardare il fondo del pozzo del mio essere che alimenta le tubature che sgorgano.

nel frattempo, mi limito ad acclamare i conati che spostano oltre timori e tensioni. basta incitarmi ancora, prendermi in mano e continuare, buttarmi a capofitto nel susseguirsi di istantanee pur di non vedere. occorre ammettere che opporsi al malessere senza immaginare neanche di poterlo cancellare significa subirlo.

 

Foto mia (CC) BY NC

effervescente vellichio

come delle volte chiudo gli occhi in un sognante sonno sveglio (un minuto appena basta ad accarezzarmi in un calore languido dall’infinita apparenza) e il soprassalto dolce dell’apertura delle palpebre pesanti si accompagna al formicolio dell’arto su cui mi appoggiavo a guisa di morbido cuscino, in quest’occasione, senza troppi appanni a velarmi il duro susseguirsi dei giorni, mi sento formicolare tutta, titillata dallo scorrere del sangue nelle arterie. fino all’ultimo capillare, sento la tensione dolce di un ipotetico blocco di partenza sul quale mi allaccio senza tuffarmi. non so se io non voglia guardare in faccia la realtà e goda di un masochistico permeare nell’immutabile scontentezza o, al contrario, io distilli piccoli piaceri da tutti i pori, senza creare scompigli troppo dolorosi per tutti.

e, sicura di nulla, aspetto, mantenendo unicamente la certezza di provare un immenso piacere nel condividere ore e cose. mi sottometto alla prova della “maledetta primavera”, per chiedermi a chi corrisponda il te a cui penso.

variopinto variegato incerto brulichio di sensazioni che attendo che passino, come i treni sui binari bloccati dalle barricate in fiamme. e siccome le rotaie verrebbe voglia di vederle invase da una moltitudine ancora più grande del centinaio di incappucciati che, sotto il plumbeo cielo grigio di fumo, lacrimogeni e nuvole, solcano la massicciata, esito un po’ a lavarmi via pensieri che non portano lontano. o che, forse, mi allontanano troppo nell’inverosimile di futuri improbabili.

fremo e lascio aperte porte e finestre, sperando che tra il vento gelido e gli spifferi taglienti, si infiltrino farfalle e scirocco.

I germogli si sporcano inevitabilmente di fango

la fame esistenziale mi attanaglia; senza saperla saziare, mi abbuffo di effimere consolazioni caduche. a forza di obbligarmi a volermi potare per confinarmi, finisco per recidere gli stoloni di un altro possibile.

e annego nella speranza di potermi alzare dal letto con il sole in faccia, sul cuscino e sulle labbra. la zavorra dei sogni torpidamente ingarbugliati mi mantiene al di sotto delle nuvole, il grigio quotidiano mi opprime sino a stritolarmi le lacrime. impossibile innaffiarci i germogli di una passione e di un amore che devo soffocare nelle lancette dell’orologio che, o scorrono sempre troppo

spring_by_frescendine
Speranza e disperazione mentre arriva la primavera

veloci, o mi graffiano drasticamente con la loro infinita lentezza.

i petali dolci del profumo dei fiori in una giornata di pioggia, gli alberi che si stagliano contro le verdi colline, l’aria che si smussa del gelo non mi forniscono nemmeno più l’alibi per rintanarmi dietro una finestra dai vetri opachi. e quando esco, mi butto, perfino dagli scogli nell’acqua cristallina. mi lancio tra l’acre respiro di lacrimogeni che impediscono alle ciglia di aprirsi, in una cappella il cui tetto sono le stelle o aspettando inutilmente che qualcuno venga a prendermi, tra l’umidità dello scrosciare di pozzanghere minacciose e le mie sinapsi in carenza critica di dopamina.

eppure, comunque sia, poggio un piede dopo l’altro, ma senza assaporare l’impalpabile sensazione che avevo chiudendo gli occhi su uno sgabello attorno all’isolotto centrale di un mare agitato.

I germogli si sporcano inevitabilmente di fango, tentando di uscire da terra nell’umido sole di un raggio dopo l’acquazzone. ma non può bastare a rassicurarmi, io non nasco da una palude e non ho nessuna ragione di trovare delle scuse per non fare ciò che mi dovrebbe far battere il cuore.

 

Foto di http://frescendine.deviantart.com/art/Spring-17291418

 

 

ci vuole una casa per andare in giro per il mondo

preparo le valige senza riscaldare il motore, concentro poca tela in uno zaino ridotto, senza timori su cosa mi potrebbe mancare. tanto so che non entrerebbe assalti_frontali-conflittotutto tra gli allacci, né servirebbero metri quadri per poterlo trasportare. ma spero di poterne trovare un pezzetto, sotto un cielo un po’ meno ingrigito e di fronte al mare. mi preparo a valicare con un passaporto un confine che ho attraversato a più riprese, sotto la neve soffice senza sopraffarmi dalla preoccupazione, mentre manganelli e ricetrasmittenti mi passavano vicino, senza che riuscissi minimamente, nella luce accecante di un autobus accesa all’improvviso, a ostacolare lo scorrere dei controlli o nei sedili caldi di un successo talmente aspettato da sembrare scontato. con rara leggerezza penso a tutto quello che mi resta da fare, senza vedere il limite della terza decade. è da dieci anni che scaldo il cuore con lacrime, incertezze, qualche pazzia, soddisfazioni sparpagliate, attriti e altri battiti vicini. conto di continuare a farlo, scegliendo migliore combustibile.

anche il freddo si fa aspettare

annacquo gocce molto meno amare di quanto voglia sentirle. ho paura dell’austero scorrere dei giorni in cui la lucidità sembra divorarmi da dentro. mi sono seduta faticosamente incollata occhi e mente per trovare una via di fuga: si è rivelato perfino più soddisfacente di quanto non potessi pensare. ma 671341c9ba7221260e458fc43788799b-d3jknz8ancora non riesco a festeggiare, non ce la faccio a lasciarmi andare senza sentire il macigno della mia irrequieta insoddisfazione pervadermi. non riesco nemmeno a realizzare quanto sia fruttuoso il mio intenso armeggiare tra i mattoncini ammucchiati in colori insignificanti, riuscendo ad accozzarli in una parvenza  di mosaico tra le cui onde vorrei navigare. mi sveglio ancor prima di addormentarmi, chiedendomi all’improvviso con gli occhi sbarrati perché non stia pogando…

 

immagine di http://dpressedsoul.deviantart.com/art/The-Risen-Wave-Crashes-214275428

Verranno a chiederti del nostro amore

non posso accantonarle, le angosce. strisciano tra il vapore dell’acqua spessa nella foresta e fra i raggi che bucano la finestra dopo l’acquazzone. si inerpicano nella voce calma che mi urla un futuro a cui vorrei sfuggire. nella pozza bitumata e bollente, tremo di brividi. tra l’eco delle candele, affogo in un’apnea che vorrei mi calmasse i sensi. aggrappata ai pioli arrugginiti di una scala a picco, l’aria si solidifica nella gola. lo zolfo e l’arsenico non mi ossidano pensieri e neuroni scuoiati vivi nel vedere come unico appiglio i segni dell’armatura del cemento. ha il merito di essere detto, il timore che alla fine faceva meno male senza certezza. a prova che forse non mi sbaglio così frequentemente come credo, ricevo indietro come pallottole ciò che avevo invano ingoiato nel groppo in gola di un sole pallido vicino alla pensilina di sabbia e roulotte.

mi faccio perforare i timpani dalla falsità delle note non son riuscito a cambiarti non mi hai cambiato lo sai , delusa da quella che credevo poetica realtà. siamo cambiati, eccome. sono riusciti a cambiarci ci son riusciti lo sai. io sono partita su una strada sterrata allo scoppiettare ritmico di bielle e pistoni, tra il sobbollire scuro di sostanze e tele da tessere. tu ti sei impolverato tra i libri, lustrandoti una patina di buon senso rivoluzionario. cosa avrò mai potuto credere, mezza sognante tra le dune e la polvere dei tuoi racconti? che gli avrei sentiti anch’io i sobbalzi dell’anima del non doversi piegare a nessun dio ne’ briglia? e con nelle orecchie il pianto disperato di un neonato che si fa paonazzo nel sopravvivere, mi vieni pure a parlare che hai accantonato le tue riserve con sicurezza, e accarezzi l’idea di un piccolo che sgambetta per riempire i buchi lasciati dai piercing. ma io non ne ho che siano privi d’acciaio,  da lasciarmi infiltrare dall’irresponsabilità del riprodurre i miei e altrui difetti.

ho paura nel farmi schiaffare di fronte a uno specchio e chiedermi: cosa farei se non ci fossi tu? tra che muri coltiverei le mie paure? su che mare mi lascerei dondolare fino ad affondare? ci sarebbe vento a spazzare le nuvole? mi acceca la mia risposta nella quale l’ipotetico non si sovrappone per niente allo scorrere delle ore che sto vivendo.

lo stridere del gallo nelle albe insonni mi risveglia dal torpore dei mesi in cui si è giocato il nostro allontanamento.

forse mi abbaglio con la luce artificiale come se fosse uno spiraglio per uscire al sole, ma non potrò mai sorridere se non mi incammino verso dove credo poter volare.

sento un freddo siderale che occupa lo spazio sempre più immenso tra i nostri occhi puntati altrove. eppure voglio continuare a crederci, obbligandomi a proseguire sulla mia strada mal acciottolata, con la segreta speranza, ingenua e inutile, che un giorno possa ricongiungersi al tuo incrocio.

ps. il titolo e i versi in corsivo sono, come si può bene immaginare di De André, Francesco e Bentivoglio,Giuseppe, Verranno a chiederti del nostro amore, in “Storia di un impiegato”, Ricordi, Roma 1973

la foto è di http://vapeur.deviantart.com/art/little-moth-292303619

sfuggevole irraggiungibile

se tralascio le mie angosce, posso assaporare il silenzio di un’eco armoniosa. sfuggo a piè pari dalla melma di un’ennesima direttrice, avendo voglia di schizzargliela in faccia fino che i pneumatici della sua audi slittino senza raggiungere l’huissier.

sono scappata sotto la luna e i bulbi amari, arrivandovi così vicino da tagliarmi le nocche e mescolare gocce di lattice e sangue. ma non ne ho afferrato nemmeno un grammo, abbandonato, insieme a tutta la sicurezza illusoria di un legame, lungo l’asfalto che si scioglie. liquefatto e bollente, non so più da che parte prenderlo per vederci ancora un’amicizia piena di speranze, chilometri, chili di watt alle feste e un sorriso d’ingenua malizia. Erro e non è uno sbaglio, vago e ritorno. mi stupisco del mio timore di perdere il timone, troppo ancorata per mettermi sottocoperta anche durante una tempesta che infuria dolcemente. e non mi lascio alla brezza, costante nell’incertezza nel definire i miei piaceri. perché gli effimeri non mi bastano, stanca di doverli vedere ripetere per poterli sentire mai forti come li avevo immaginati, ma troppo impaziente nella costanza dell’annaffiare per poter vedere arrossirsi gote e pomodori.

foto di http://iconofcoil.deviantart.com/

appena prima

mi chiedo perché “errare” si porti dietro quella spaesante duplice accezione.

vago con una meta ben precisa  ma sconosciuta, nella difficoltà concreta di calibrare il compasso di mare. mi chiedo se mi sbaglio errando tra un tentativo e un altro.

piegata dai conati, in una notte dall’infinita impossibilità

di chiudere occhio, mi preservo qualche centimetro quadrato di lenzuola per non aver rimpianti.

Inforco il mio destriero sotto il sole che batte più di quanto non pulsi la mia testa, incredibilmente stupita dal gestire telefonate senza avere dormito.

E riprendo le forze che forse avevo troppo dissipato, spoletta tra due mondi in cui rincorro una felicità che si nasconde con astuzia dietro l’orizzonte.

 

Foto di http://ono-sendai.deviantart.com/