vagli a spiegare che è primavera

non tanto al virus, che a quello non c’è nessuno che gli parla. ma a chi ci obbliga a transennarci nella paura dell’altro e dell’altrove. spuntano i boccioli ma non possiamo vederli, se non scendendo dall’auto lungo la fila di carrelli al supermercato. I germogli fuoriescono mentre butto l’immondizia. che poi non è nemmeno previsto dall’autocertificazione, « portar fuori la spazzatura »…eppure il lerciume si ammassa se non lo si spazza. difficile fare piazza pulita dei problemi e dei pensieri nell’incombro limitato da un orizzonte che dovrebbe davvero fermarsi a un tetto.

Autore sconosciuto

A volte ritorn(an)o

Un mese e mezzo permette appena di vedere scomparire e riapparire la luna da dietro le nuvole. Ma cinquemila chilometri la fanno ruotare su se stessa, come una barca che si culla ingobbita sull’orizzonte. Come il traghetto che ci ha portato dall’altro lato di quella pozza insanguinata che è il mediterraneo cinto di frontiere e filo spinato.

Le storie raccontate nell’odore spesso della carne che griglia nella polvere delle strade che brillano di led, quelle rese difficili da raccontare per le gengive sdentate e la lingua sconosciuta, quelle complicate dalla burocrazia e dalle leggi che scaraventano a mille miglia o inchiodano al di là delle recinzioni, quelle sussurrate in un bar scurito dal fumo acre e dolce accanto a un ness-ness schiumoso.

e a noi basta premere l’acceleratore, per osservare i chilometri trascinarsi.

Tra le palme incastonate nei dedali sinuosi scavati nelle rocce rosse, stento a trovare un’oasi di pace per le mie percezioni. Eppure, tagliando il traguardo fatto di pini e rocce fossili, mi sorprendo a ritrovare une leggerezza stentata e perduta.

Non mi lascio abbattere, senza essermene resa conto ho accumulato una distanza benefica dalle strade del mio ex presente. Sorrido incredula di fronte alla leggerezza delle foglie verdi.

Sulla strada

Tento di seguire le tracce insabbiate nei byte, ma non trovo nient’altro che frammenti di immagini nella memoria.

Seguo la scia di onirici percorsi lungo strade che mi ritroverò presto a ripercorrere.

Mi sorprendo di non aver lasciato nemmeno una frase incisa in un taccuino, ma i cambiamenti mi sono rimasti talmente impressi da non aver avuto bisogno d’inchiostro.

Immagine su creative commons : attribuzione necessaria, non commerciale e modifiche possibili dopo aver contattato l'autore (tarassaco 2013)

Era aprile o maggio o giù di lì. La sabbia, la spuma dell’oceano e quell’indescrivibile calore leggero di un benessere scuro e amaro hanno segnato la mia strada.

Forse non me ne ero nemmeno resa conto, sul momento, di quanto fosse diversa la vita dopo aver galleggiato in una stazione di servizio, tra la sabbia e le palme.

Quella luce gialla, chiara e quasi accecante, il vapore dell’hammam bianco e spumeggiante, i fumi dell’alcool bevuto in quelle stanze sul pavimento facendosi passare un bicchiere sempre più in fretta. Quel mare incessante dallo scroscio tintinnante che rievoca il thé nei bicchieri.

So che non potrò ritrovare la facilità che c’era stata. So che non potrò ritrovare la mia io di prima. Ma non vale la pena far affiorare quella disperazione assopita dal nulla.

Immagine su creative commons : attribuzione necessaria, non commerciale e modifiche possibili dopo aver contattato l'autore (tarassaco 2013)

Ritorno su un sentiero verso nuovi orizzonti. Il tachimetro mio amico.

Vedremo questa volta fin dove si andrà…

non sono un peluche

aria e ossa umide sotto i frammenti di nuvole che coprono il cielo. freddo onnipresente sulla pelle scoperta. un lago ritagliato dagli scavi di una cava che fa zampillare fossili e sorgenti sotterranee. il naso che cola e gli sternuti tra gli sbadigli. eppure, non mi manca niente in questo frangente. un’istantanea che non ha nulla di polare, ma al contrario riprende il cuore caldo e i polpastrelli dolci. un tronco di traverso su un terrapieno abbandonato. e noi due dagli arti attorcigliati “a scaldare via l’inverno”.

mai come in questi istanti, vorrei solo che il tempo si fermasse. senza prima e senza dopo. una carezza infinita, dolcezza interminabile. è un paradosso? un corpo segnato dall’inchiostro e dagli abusi emerge con una tenerezza insospettata che sconfina al di là delle ossa appuntite che mi abbracciano con tenacia.

immagine di https://www.deviantart.com/tanyayuck/art/dolcezza-268785252

ma le lancette corrono e sempre troppo veloci. arrivo affannata in ritardo, colpevole di non aver preparato la cena. sguardi interrogativi che non voglio mi trafiggano.

persisto.

divanetto di una roulotte, barba dolce, parole sparse. sto bene e nient’altro mi interessa. il tempo scorre. corro via in salita con affanno.

arrivo e questa volta riesco pure a preparare pollo e aneddoti da condividere. abbiamo molto di più da spartire di quanto non ci sia da nascondere.

non voglio affossare i miei sentimenti, ho l’impressione di non poterci rinunciare per principio e la certezza di non dover tranciare per amore. amore di me stessa, di lui legato negli anni e di un lui slegato nella passione effimera. non è facile non cedere. paura di far male. terrore di ferirmi.

eppure, ne è valsa la pena. nei fiumi di parole che scorrono sulle scie chimiche di acide righe, trovo una zattera comune. galleggiamo insieme, frustrazioni o rancori spazzate a mille miglia.

sento une leggerezza alata pervadermi. posso trasformarmi in calamita, ciò che abbiamo saldato è ben più saldo dell’attrazione incontrollabile che mi spinge ad attaccarmi alle lamiere dolci di case mobili.

contenta di me stessa. infinitamente rassicurata, riconfortata, non so bene dove andrò, ma so che saremo in due. più mille possibili. più il calore tenero che perdura senza obblighi e mi scalda, con le sue lunghe ciglia.

ti vedo scritto su tutti i muri

in una notte senza domani, mi sorprendo a scorgere Orione. da una finestra che infrange la superficie liscia della tranquillità, l’ambivalenza della mia testa brilla nelle stelle. la costellazione che dovrebbe proteggere il mio amore radicato negli anni illumina una stella tatuata su una natica recentemente denudata. non basta chiudere le imposte per non vedere la luce del giorno che filtra dopo una notte scorsa nell’effervescenza della novità. non basta nascondere i raggi che arrossano le nuvole all’alba per fermare le lancette del tempo che avanza.

una corrente impellente mi attraversa da cima a fondo. bisogna forse accettare di ferire pur di non farsi del male ? so cosa voglio, ma sento cosa provo senza deciderlo. lo scintillio notturno di lunghe ciglia nere mi offusca la vista. non distinguo ne’ ombre ne’ luci, mi perdo nel ghiaccio della pescheria, come se fossi un’alice che sguazza nel polistirolo. mi ritrovo immersa in sensazioni lontane dal razionale.

che differenza c’è tra un caldo amore, rassicurante speranza contro l’angoscia, che scivola tranquillo come une serata d’inverno e una fresca mattinata d’estate dalla dolce effimera sgangheratezza?

so bene che della seconda finirei per stancarmi ben prima che guariscano i denti doloranti, ma nel frattempo non ho nemmeno la scelta di non vedere il suo nome scritto ovunque. mi appare davanti senza metafore, eppure so che c’erano giorni in cui non ci avevo fatto nemmeno caso.

“ma sembra così importante per te”, un eco gelato mi riempele orecchie. non so se lo sia, anche se mi sembra fondamentale non soffocare le mie voglie passeggere.

Histoire d’une clope

Paillettes de cendre planent de la clope au bec à la fenêtre, comme neige de printemps. Flocons d’une légèreté redoutable qui partent danser avec les milliards de particules fines qui infestent la ville. Oiseau sur ma branche en béton, j’observe le fourmillement au sol sans gazouiller. Des notes de violoncelle inondent les pièces, l’écho des pots d’échappement percés résonne de la rue.
Posée à une fenêtre, l’enduit de la façade qui se désagrège comme le sable fouetté par les vagues, j’aspire de ce petit carton un air plus chaud que l’hiver qui vient de finir. Des quartier s’effondrent, de sous les décombres, la rage nous engage. La gentrification m’étouffe dans l’angoisse d’un futur au karcher. Ou au canon à eau.

Avec mes lèvres je brandis une brindille allumée. Des feuilles et des pétales qui partent en fumée. Le long de la voie ferrée, bruyant canyon urbain, les pruneliers sauvages recouvrent de blanc la peinture des tags. Écailles éphémères de pistils secoués à intervalles réguliers par les TER.
Le mistral balaye les rues où encore des encombrants ressourcent les poubelles et une vie sans thunes. Habituée aux cassos de campagne, je retrouve un air frais de familiarité.
J’ai traversé quartiers et frontières pour que dans mon plateau à rouler se trouvent ce tabac importé et ces substituts végétaux, ersatz d’un temps auquel je ne veux plus succomber.
Trop peu perméables ces front qu’on voudrait qu’ils appartient à hier. Pendant que je demandais une stecca de cigarettes à Clavières et les skieurs descendaient les pistes, des ormes dans la neige n’avaient aucune certitude de ne pas échouer sur les écueils rocheux des pics.

Parce que ce n’est que des ormes et des ombres, non pas des hommes et des femmes, qui tombent dans les filets de montagne et de mer, cimetières éclairés à jours par la lubie d’une main-d’œuvre à bon marché. Indifférence requise, éblouissement de mise.

Données sociologiques à la main, dans le quartier en dessous des volets, on bosse plus et on gagne moins. Refrain bien différent de celui qui résonne sur le pavé cleané d’autres arrondissements que je dois traverser pour arriver à ce même bleu horizon qu’on voit à l’envers de l’autre côté de la Méditerranée.

Moi j’y vais par paresse : je pourrais plier le dos et endurcir la corne en ramassant rosettes et jeunes pousses. Au prix de quelques égratignures d’épines de ronce, j’y gagnerait l’odeur de la terre et un combustible gratuit tombé du ciel dans mes feuilles.

Dans une ruelle étroite, au comptoir dépoussiéré par l’engouement d’une nature devenue marchandise d’une vieille officine, j’obtiens ce que je demande, malgré un savoir qui ne se partage mais se vends.

Je rentre, les poumons bien noircis par les fumées d’échappement qui ne peuvent pas s’enfuir des arcades sombres d’un tunnel bruyant. Et je décide de m’infliger moi-même une pollution intérieure et ultérieure.

Penchée à la fenêtre, je guette les pétales éparpillés sur le sol et les confettis de déguisements bien trop binaires qui défilent dans les rues sous les rails.

J’essouffle l’air avec les bribes de papier blanchâtre qui s’envolent jusqu’à que la chaleur incendie les lèvres et transforme un plaisir éphémère en mégot à écraser sans pitié.

Destination le fossé, porté par le bien vouloir d’un inconnu hasard de déterminismes indéterminés à marquer le futur qui flotte dans l’air du printemps.

partire e tornare

scoglio o trampolino?
foto mia, licenza cc-by-nc-nd

il peso del mare me lo porto appresso. La Mannoia mi aveva avvertito, viaggiare vuol anche dire tornare. andare per lasciarsi alle spalle, anche fosse per sparuti secondi, rompicapi che non si annientano solo accantonandoli. nasce forse allora la speranza che gli scogli a spezzare l’orizzonte fungano da inauditi trampolini.

ma per potersi tuffare occorre saper valutare la traiettoria ed equipaggiarsi della giusta dose d’avventatezza e coraggio. a volte, ci si ferisce i piedi nell’arrampicarsi senza difese sulle rocce e, arrivati in cima, si rischia di dar retta solamente al sangue che gocciola.

Macchie di licheni ambrati a ravvivare la pietra su cui scivolo senza schizzi ne’ clamore, riuscendo perfino a raddrizzarmi all’ultimo.

Aspetto di smettere di lasciarmi portare dal vento, mentre la tramontana spazza le guance dalle gocce salate. non so più se siano lacrime o schizzi d’oceano…


sinusoidale imperfetta

dans ma tête courent les courts-circuits

come energia che fuoriesce da un inverter precario, dalla sinusoidale smussata e imprecisa, alterno alti e bassi in una corrente continua. l’unica costanza è l’alternanza : sali e scendi, come sulle colline svedesi nell’aria d’estate. ce la metto tutta, ma non è detto che questa volta le onde cullino. Oscillano e io con loro.

sento una perdita d’energia folgorante, dispersione di corrente inesorabile che mi scarica le pile, batterie à plat. eppure, ero così su di giri, mi arrotolavo freneticamente come una dinamo pronta a diventare dinamite. e senza davvero esplodere, come quelle centrali dai camini inquietanti che minacciano la catastrofe imminente, calo di tensione e soffro di interruzioni di motivazione diffuse.

occhi e contatti ossidati, oggi, senza che siano morbidi e cotonosi. ho rifiutato il furto di fluidi elettrici artificialmente deviati direttamente nelle arterie e tra gli impulsi incostanti delle sinapsi. devo ancora capire il perché ; ne guadagno una bolletta tanto salata quanto insipida e esausta.

 

electric_road_by_tgphotographer
Foto di https://www.deviantart.com/tgphotographer

Ma sono io che sono esaurita, en attendant EDF.

mi sveglio e voglio il meglio

mi sveglio dopo appena qualche ora di relativo riposo su un materasso sconquassato in uno squat scaldato da un’energia collettiva e molecole colorate.

nemmeno l’ombra di una risacca che acciacca ; fuori, grigio di città ma, per una volta, mi sento avvolta nella nebbia che sfuma il malessere. gente per le strade, palazzi, cemento e asfalto mi sembrano armi e opportunità di una vita in cui tutto è possibile. non c’è ombra che mi inquieti, cammino e non mi preoccupo del non saper esattamente dove sto andando. direzione incerta, ma rotta sicura verso l’infinito.

serata drogata dal ritrovare facce e corpi come se il tempo si fosse fermato, stringersi di mani in forti carezze e pure baci e abbracci, passi di danze improvvisate. nessun rimorso ne’ rimpianto per l’aver fermato ormoni con cui avevo già varcato una routine rodata. afferro il ritmo, mi butto a capofitto.muro

felpa e cappuccio, anfibi crepati, passo dopo passo, ritrovo la forza. sudore e sporcizia aggiungono una patina rassicurante ai marciapiedi e alla vita.

incontro non casuale sconosciuto, senza timori, che fa seguito a scambi di frasi e pennellate di scrittura. improbabile, non so perché lo faccia, ma non c’è ragione di privarmene.

gli angoli scuri ritagliati dal diametro ristretto delle pupille non riflettono mostri, ma lasciano scie calde sulla retina e sul cuore. perché anche ritornare, non impedisce di inseguire una goccia scura che scivola su un foglio argentato (che avrei chiamato specchietto delle allodole molti post fa). e aspirarne un benessere insospettabile che non sparisce, ma perdura nei giorni che si susseguono (nella speranza forse di ritrovare quella polvere sporca ?) se condiviso tra le tag e l’elettricità selvaggia.

Pourvu que ça tienne.

in salita

esco da uno stanzino fresco, spoglio di orpelli come solo un edificio pubblico può esserlo (quando dietro alle scrivanie non sono dissimulati calendari pirelli, busti di dubbio gusto o modellini crocefissi). dovrei averci lasciato parole macigni che pesano sul cuore, ma sento che continuo a portarmele addosso. fuoriuscite con l’abituale difficoltà da corde vocali tese come artigli, scaturiscono in ulteriore gravame da gestire. come se sentissi gli effetti di una sofrologia dell’opposto che poco a poco mi invitasse a irrigidire i muscoli uno ad uno, sento le fibre appesantirsi, finché anche il respiro strappi l’aria con scatti dolorosi.  bloccata da una tensione che palpo in ogni movimento e mi toglie il fiato. riesco a picchiettare meccanicamente i tasti solo perché non c’è bisogno di grazia e leggerezza per interfacciarsi con una macchina fredda. mi rinchiudo di fronte ad uno schermo, il plumbeo grigiore non solo metaforico di un cielo d’autunno scroscia sulla mia testa. gelo dentro, mi scuoto di spasmi che diventano singhiozzi acerbi. sospiro senza speranza. mi chiedo se non serva ascoltare una ricetta bianca e ingurgitare un’amara caramella azzurra. ma è troppo lontana, anche qualche metro mi sembra irraggiungibile. mi acciglio, per non bagnare le ciglia, in una salita di alberi sempre più morenti.

salita

sono foglia a terra umida bagnata da gocce di un pianto che scende da lontano. mi pesano e mi accartoccio come lacrime dei rami d’autunno. raso terra, nella ghiaia dell’asfalto che scortica la membrana secca di quelli che erano stati germogli teneri.

dovrei raddrizzarla questa foto sghemba, ma lascio l’obliquità scomodante e le vette dei pini mozzati, metafora troppo parlante di un percorso che non ha nulla di lineare.

 

fatigue

Faisceaux musculaires tendus comme des arcs. Une harpe sans harmonie, un concert asthénique d’une lassitude lente. Picotement en dessous des paupières, petites échardes de faiblesse enfoncées derrière les orbites.

ombra2Rien à voir avec une mollesse agréable, c’est des spasmes de fatigue qui m’habitent aujourd’hui. L’acide lactique dans les fibres lisses ça caille et des gros grumeaux séreux remplacent le peu de matière grise qui m’empêchait d’élucubrer à mort.

J’aurais presque l’impression d’être en descente, mais c’est le manque de sommeil qui monte. Je connais quelques solutions à la tension criarde qui tranche mon dos, mais elles sont toutes bien trop éphémères. Des coups dans un sac de frappe qui revient inexorablement à la même forme, et peut même finir par se balancer dans ma gueule dans un instant d’inattention.

J’ai l’impression d’avoir des écorchures pour rien, filets de sang qui sèchent dans une croûte que je lèche, histoire d’apaiser une prétendue anémie.

ansio-litica

non basta poter osservare che globalmente va meglio, la tensione perpetua diventa rigidità occasionale di muscoli ancora sempre all’erta, ma meno corde di violino dai suoni stridenti.

non basta una panoramica globale diretta verso l’alto quando mi ritrovo (ancora?) a singhiozzare senza respiro in un nodo di nervi d’arpa.

forse solo così riesco ad essere me stessa?

À cran, senza che possa smussarmi gli angoli?

un pallet grezzo ha sempre più il suo fascino in localetti alternativi, ma ci vuole ben di più di una semplice smerigliatura ad un blocco di pietra informe per trasformarsi nella pietà.

non voglio levigarmi, ma non so come poter esprimere le sfumature

sgorgano

un stylo, vite, les mots régurgitent !

ne pas se mettre en danger, ce n’est pas forcement se protéger

(je n’avais pas fait le lien jusqu’à là)

retranchée dans une toile d’araignée qui me cloîtrait dans un cocon d’épines. Ce n’est pas parce que je n’ai pas allumé d’incendies catastrophiques que je n’ai pas failli me consumer à petit feu.

Dardi spezzati dans mon vécu que, mine de rien, n’a rien de si doux.

E so benissimo che non serve (a niente? a un cazzo?) s’en vouloir per tutto ciò che non ho fatto. Un giorno capii che « situazionista » voleva dire che le situazioni le si creano, riempiendo di merda i muri bianchi, esponendosi al vento le piaghe ancora prima che si creiino.

Ma non me l’hanno mai insegnato et j’ai du mal à l’ap-prendre.

097

Impuissance

nodo alla gola e tonsille annodate con annidate vesciche interrompono lo scostante sonno superficiale. Mi rigiro, senza rilassarmi (in eco ad una canzonetta adolescenziale).

Non so cosa poter fare. Ripenso ai ritornelli che evoca la parola impuissance.

Una sfilza di parole e immagini, automatiche solo nel non essere riflettute prima di scriverle. Ma faticose nell’incidere la carta.

impuissance

c’est les mains liées face au plafond qui s’écroule

se casser la gueule du haut des escaliers et rien ne pouvoir espérer d’autre qu’une dégringolade infinie sans infâme atterrissage

tétanisée par la rage dans un rêve éternel où toute la voix du monde ne produira pas le moindre son

muette dans un appel à l’aide qui étrangle les cordes vocales, nouées sur elles mêmes dans la vaine tentative de sortir et de se mélanger au sanglots

C’est dormir sans réussir à se réveiller, assommée par une fatigue existentielle qui vide chaque fluide dans une fuite d’énergie qui ne touche pas au neurones qui se battent contre la boîte crânienne

c’est un gland qui perce les entrailles, sourd aux demandes de démission à ce poste bientôt trop gluant.

impuissance

c’est les bras ouverts dans la cour qui n’arriveront jamais à réceptionner le désespoir pourtant si jeune qui se lance la corde au cou du balcon

c’est l’odeur aseptique de la chimie des médocs servi sur les plateaux plastoc derrière les mêmes nuages gris pendant que le mal caché on ne sait pas où avance

c’est partir à la recherche d’une automobile perdue cassé laissée au bord du trottoir dans une nuit d’incertitude direction le néant

c’est le garrot autour de la jugulaire d’une aiguille qui vide un choux de sa sève dans la solitude d’un siège de voiture abandonné en périphérie

c’est le fauteuil d’un bus où on a le droit de monter et la contrainte de descendre mourir grelottant dans des lignes imaginaires tranchées par des glaciers

c’est les années qui défilent contre les kilomètres de la fenêtre d’un train et les rails comme rides qui creusent des fossés sans ponts

Impuissance

c’est ne pas réussir à parer les coups qui éclatent la moelle d’une mâchoire amie, n’arrivant pas à la faire fuir  du gouffre d’un soi disant amour aveugle où elle s’est murée vivante

 

Impotenza

sono le mani legate sotto il soffitto che crolla

è fracassarsi la schiena giù per le scale e non poter sperare nient’altro che una caduta infinita senza infame atterraggio

anestetizzata dalla rabbia in un sogno eterno dove tutta la voce de mondo non basterebbe a produrre il minimo rumore

muta in un grido d’aiuto che strozza le corde vocali, annodate su se stesse nel vano tentativo di fuoriuscire e confondersi con i singhiozzi

è dormire senza riuscire a svegliarsi, stordita da una fatica esistenziale che svuota ogni fluido in una perdita d’energia che non sfiora i neuroni mentre sbattono sulla scatola cranica

è un glande che perfora le interiora, sordo alle richieste di dimissioni da questo posto presto troppo viscido

impotenza

sono le braccia aperte nel cortile che non potranno mai acciuffare la disperazione così giovane che si butta con la corda al collo dal balcone

è l’odore asettico chimico delle pasticche servite su un vassoio di plastica dietro le stesse nuvole grigie mentre il male nascosto non si sa dove avanza

è partire alla ricerca di un’auto perduta rotta lasciata sul ciglio della strada in una notte d’incertezza direzione il nulla

è un laccio emostatico sulla giugulare di un ago che svuota una verza dalla linfa, nella solitudine di un sedile abbandonato in periferia

è il posto di un autobus su cui si ha il diritto di salire e l’obbligo di scendere per morire assiderati sulle linee immaginarie tagliate dai ghiacciai

sono gli anni che sfilano contro i chilometri dal finestrino di un treno e i binari come rughe che solcano fossati senza ponti

Impotenza

è non riuscire a parare i pugni che fanno saltare il midollo di una mascella amica, senza riuscire a farla sfuggire dall’abisso cieco di un amore supposto dove si è murata viva.

frammenti


siccità di parole,

aride, che non germogliano dalle mie mani,

imprigionate nella retina neuronale,

stentano a sgorgare nella luce blu di un mattino insonne,

sulla carta pesante di uno sciroppo per la tosse senza nemmeno codeina

senza parole sulle dita per nulla

assonnata all’alba

sbadiglio senza sbaglio

sécheresse de mots,

arides, qui ne germent pas de mes mains,

prisonniers de la rétine des neurones,

qui peinent à jaillir dans la lumière bleue d’un matin d’insomniaque,

sur le papier lourd d’un sirop pour la toux sans même une goutte de codéine

sans paroles sur les doigts pour un rien,

torpide à l’aurore

je baille sans bourde

in giro per la rete

nel mio impeto traduttore, ho trovato un post di un blog in cui specchiarmi.

sensazioni altre, che riecheggiano veracemente.

traduco dal francese

senza sole in testa

un po’ di tempo fa, mi ero ripromessa di scrivere una presentazione con il sorriso sulle labbra.

Ma, visto che ancora oggi, sguazzo senza leggerezza, ho abbandonato l’idea di presentarmi e cedo fiduciosa ai benefici del picchiettio sulla tastiera. Come ogni cosa che inizio in questo momento, nessuna garanzia di successo. Peggio per me, almeno ho una buona scusa per non mettere le mani in pasta.

fuori, fa bello caldo luminoso (uccellini, fiori e germogli sugli alberi, cielo azzurro, eccetera). istantanee di una giornata di primavera inoltrata.

nonostante l’aria tiepida, dentro di me, una nebbia grigia e spessa mi avviluppa e mi soffoca (nessuna burrasca, nemmeno una tempesta, ma sento il muoversi difficile di pachiderma anchilosato). Dalida riecheggia nelle orecchie, ho la sensazione che i raggi di sole riscaldino la pelle, ma mai il cuore…[1]non riesco nemmeno ad arrabbiarmi per non riuscire ad approfittare della primavera che ho aspettato per tutto l’inverno.

gli unici petali che sento sono quelli delle lacrime a fior di pelle. il mio respiro paralizzato blocca i nervi, le palpebre si inumidiscono da sole.

questa mattina, ricerca disperata di un dottore: mi faccio cacciare dagli studi e finisco per accasciarmi piangente sulle scale dell’ultimo edificio, incapace, con voce rotta e tristezza muscolare, di ribattere alle scuse fasulle delle segretarie. Fossi stata bene, avrei potuto, con estrema facilità elemosinare un posticino per una visita veloce, organizzarmi per arrivare alle sette di mattina, insistere; ma, se fossi stata bene, non avrei avuto bisogno di vedere il bianco accecante di un camice apprettato.

I Velvet Underground passano rumorosamente su youtube, ma non scorre niente nelle mie vene [2]. A pensarci bene, mi sembra di avere cemento nelle arterie, che man mano indurisce appesantendo vita e ossa. E mi sembra di vedere mattoni di calcestruzzo che bloccano ogni uscita. Lo so, ci deve essere una mazza nascosta tra le macerie, ma senza forza per cercarla, non sono sicura di riuscire a brandirla.

Aspettando, tento di annegare in un bicchiere spesso di kratom. Come se cambiasse qualcosa. Oggi, almeno, non sarò nemmeno riuscita a sballarmi.

Mi stanco da sola, non immagino neanche il logorio degli eventuali lettori! Non affaticatevi a lanciarmi salvagenti, ho troppe cose da fare. Sono in partenza per qualche giorno in altri orizzonti e ho questioni da sbrigare. Ma lo faccio male, sto male. Ciononostante, in fondo al baratro del mio cuore, ci credo che le cose si rimetteranno a posto, il tempo è una ruota che gira. Non oggi, ma pazienza.

[1] orig. « Dalida résonne dans mes oreilles, j’ai l’impression que les rayons se posent sur ma peau, mais jamais sur mon cœur…» evoca la canzone Parole Parole il cui testo dice (nella versione originale) «Moi, les mots tendres enrobés de douceur/ se posent sur ma bouche mais jamais sur mon cœur» (nella versione italiana questa rima è stata espunta, con mio grande disappunto).

[2] Grande difficoltà traduttiva. Nell’originale « Les Velvet Underground s’écoulent bruyamment sur youtube, mais rien ne coule dans mes veines» ; non so proprio come rendere «s’écouler» (scorrere, di tempo)/«couler» (scorrere di liquido) in riferimento alle canzoni dei Velvet come It’s a perfect day o Heroin.

 

altalena

piango con lena, cado dall’alto nel baratro scosso di un’intranquillità ostinata.

no, non viviamo su una linea retta. parabola con traiettoria di alti e bassi. e mi ritrovo a scivolare in fondo al pozzo, irrigato dai miei occhi piangenti. abbatto pugni sul braccio, come se l’eco delle ossa inviasse una scossa nel più profondo dei miei inspiegabili dolori.

raggiungo traguardi senza che il mio cuore salga sul podio.

ritorno là dove avevo sperato tutto fosse evaporato.

vendere l’anima al diavolo

immagine moralista e religiosa a mille miglia dal mio universo, dove anche il saluto prosternato del karate appare troppo mistico.

eppure, potente metafora eloquente.

non credo allo spirito e all’anima separati da un corpo malvagio e perverso. siamo tutt’uno: impulsi elettrici nelle sinapsi come nei battiti cardiaci. non credo al diavolo, risvolto allettante e tentatore di un dio troppo stanco che, insieme a De André, si finisce sempre per nominare invano. non credo nel vendere, atto di fede capitalista che insignisce gerarchie.

eppure, sudo freddo al caldo , mi annaffio di fazzoletti e corse sulla tazza, spossata, mal di schiena che mi irrora fino alle spalle. e, ancora, non ho visto niente.

l’ho già venduta l’anima al diavolo. senza poter retrocedere, mi dico che forse vale la pena fermarsi. non sono forse più in tempo, ma certo non sarà meglio, dopo.

mi intossico con un piacevole veleno. ma l’amarezza della bile e le stelle del dolore mi ricordano che forse avevo torto a scagliarmi contro l’insensatezza moralista del ritornello d’infanzia “il bel gioco dura poco”.

eppure, che male c’è?  quello che ci facciamo, che se non fossimo noi sarebbe un padrone, uno sbirro, un medico. prenderebbe altre forme e la sostanza non sarebbe la stessa. ma le stigmate nel corpo sarebbero ancora lì, ad avvertire che non si può vivere senza morire un giorno.

 

meglio

rido e sorrido incredula. mi sento andare a cento all’ora, scoppiettare stupita dal benessere in cui crogiolo. ovvio, non è stato l’intreccio di lingue tra la gente, nelle luci iridate e nelle insistenti percussioni elettroniche, né il ritrovarsi su un’auto con il cielo che si schiarisce o in una casa di pietra e il sole che si nasconde tra i castagni. e non sono stati neppure i ruggiti e le scosse ad avermi fatto invertire la rotta nella scatola cranica. mi scanso dalla direzione ostinata che mi fionda contro un muro, mi tolgo dal percorso che porta dentro a un baratro nero. non so perché, non so come. Era forse Hemingway, o il film Prozac Nation, a dire che la depressione viene “poco per volta, lentamente, e poi, repentina, all’improvviso”.  E mentre il primo soccombe ai mali che lo infestano, la protagonista del secondo riesce a stravolgere la citazione, adattandola all’avvento, altrettanto inaspettato, di un leggero benessere. essere su di giri non è forse sintomo di tranquilla serenità, ma sono contenta. chissà per quanto, dove come e perché. ma questo non resta che scoprirlo…

Calda fiducia

la pioggia non cessa, il gocciolio delle lacrime sembra invece fermarsi.

dolcemente (pian piano si direbbe in italiano, ma preferisco un francesismo zuccherato oggi), piccole ansie passeggere sostituiscono l’angoscia diffusa. immensamente contenta di aver saputo varcare i confini spinati che io stessa mi ero creata: con la paura di far male agli altri, me ne sono fatta da sola.

chiedendo un titolo di una novella da scrivere ad un’amica riccioluta accanto al focolare scoppiettante di una masseria provenzale, lei si stupiva, tra gli ulivi e le rocce bianche, che un editore potesse chiamarsi “i legami che liberano”. Non era tanto la scelta commerciale a renderla perplessa, ma l’essenza stessa della frase le appariva così paradossale da essere messa in discussione dalla finzione di un racconto. In realtà, la fantasia non c’entra, a parte se si intenda come libertà di andare oltre gli schemi e immaginare che tutto sia possibile. Dicevo, non c’entra, perché ho sentito in prima persona, veramente, il piacere di un legame, forte e profondo, che mi permette di prendere la libertà che mi è essenziale. a lungo sono stata io stessa ad averne avuto paura, a non concedermi (nulla) per timore. E ora, che in una serata dalle sfumature psichedeliche ho stretto a me l’elettricità che sentivo scorrere, sento di aver smaltito una parte della frustante carica elettrostatica accumulata negli alberi dendritici delle sinapsi. lungi dall’aver tutto risolto, gioisco nell’aver aperto una breccia consistente nei nuvoloni grigi che assecondavo all’orizzonte. voglio stringere forte la vita, sentirne le ossa e i muscoli, ricaricarmi al calore di una fiducia multipla. Che sia, per una volta, nei giorni che devono ancora scorrere o in quella certezza di una relazione che mi accarezza e mi accompagna nel tempo.

Forse è troppo presto per sorridere, ma constato che i raggi del sole di ieri all’alba hanno brillato rosa e arancio.